La riforma del Mes agita la politica italiana, con 16 senatori e 52 deputati del Movimento 5 Stelle che minacciano di votare contro la risoluzione che il 9 dicembre darebbe “carta bianca” al premier Conte per garantire, al prossimo Consiglio europeo, l’adesione del Paese al nuovo Meccanismo europeo di stabilità, il cui Trattato dovrebbe essere firmato a inizio del 2021, con effetti prevedibili sulla tenuta del Governo. Ma di quanto i ministri dell’Economia e delle Finanze europei hanno deciso a inizio settimana più pesanti appaiono essere le conseguenze per la nostra economia, e per i risparmi dei cittadini, come ci spiega Domenico Lombardi, economista ed ex consigliere del Fondo monetario internazionale, «soprattutto per i tempi con cui questa riforma del Mes viene implementata».
Cosa intende dire?
Dobbiamo ricordarci che ci troviamo in un momento in cui l’Italia sta rifinanziando il suo debito pubblico a tassi eccezionalmente competitivi e sta mostrando una buona capacità di rapportarsi coi mercati, grazie, come noto, all’azione della Bce sul mercato secondario riguardante i titoli di stato di tutta l’Eurozona. Peraltro è interessante notare che questo supporto senza precedenti dell’Eurotower è stato ora incorporato nelle analisi delle agenzie di rating, come si è visto allorquando Standard & Poor’s ha migliorato il proprio outlook nei confronti dell’Italia da negativo a stabile. Decisione non certo dovuta a un miglioramento del Pil, del deficit o del debito del nostro Paese, ma all’ottima capacità di rifinanziamento sui mercati che risente in modo determinante degli interventi della Bce. In questo quadro viene proposta una riforma del Mes che rischia di alterare questo equilibrio virtuoso, ma pur sempre fragile, raggiunto peraltro in una situazione difficilissima.
In che modo la riforma del Mes rompe quest’equilibrio che è favorevole al nostro Paese?
Questa riforma tende a fare del Mes il fulcro nella gestione e nella risoluzione delle crisi economico-finanziarie dei Paesi dell’Eurozona. Di fatto diventa il gatekeeper, il “guardiano”, di qualsiasi aiuto di cui i Paesi dovessero aver bisogno. Viene rafforzato il suo ruolo di negoziatore e somministratore della condizionalità, oltre che di valutatore della sostenibilità del debito pubblico di uno Stato. Viene di fatto reso più cogente il meccanismo per cui un’autorità esterna all’Italia può decretare la ristrutturazione del suo debito, con conseguenze potenzialmente gravissime per i risparmiatori e i depositanti italiani.
Tutto questo ha che fare con la discussa riforma delle Cacs, le Clausole di azione collettiva?
Esattamente. Diventerebbe più semplice arrivare a una ristrutturazione del debito attraverso queste clausole che faciliterebbero il coordinamento dei debitori nel caso appunto di una ristrutturazione. Ne discende che introdurre queste clausole ha una valenza segnaletica negativa nell’attuale contesto del tutto particolare. Paesi ad alto debito come l’Italia potrebbero essere penalizzati in questa congiuntura, proprio in un momento in cui il nostro Paese ha finalmente stabilizzato il rapporto con le agenzie di rating, che hanno mantenuto costante, se non migliorato dopo lungo tempo, i loro giudizi, e si rifinanzia sul mercato in modo ottimale.
Dunque chi detiene titoli di stato italiani potrebbe più facilmente trovarsi a dover fare i conti con una ristrutturazione del debito, cioè un taglio dei rendimenti o del valore dei titoli stessi. Chi invece ha un conto corrente bancario e non acquista queste obbligazioni corre dei rischi?
Con questa riforma si stanno ponendo le basi sempre più solide perché una decisione sulla ristrutturazione del nostro debito venga presa al di fuori dell’Italia. Ed è evidente che tale decisione avrebbe pesantissime conseguenze per i depositanti italiani, dal momento che una grandissima parte del debito pubblico è classata negli attivi delle banche residenti. Che a quel punto potrebbero incorrere in difficoltà patrimoniali, rischiando di dover attivare il meccanismo del bail-in. C’è poi un altro aspetto da sottolineare nel dibattito sulla riforma del Mes.
Quale?
Il Mes dispone di due linee di credito, una per i Paesi virtuosi o di serie A, con fondamentali e politiche economiche ritenute sostenibili, e un’altra per i Paesi con debito e deficit elevati, di fatto di serie B, nei confronti dei quali viene somministrata una condizionalità più intensa. Dati i suoi fondamentali, è già chiaro che l’Italia potrebbe avvalersi solo di questa seconda linea di credito a condizionalità particolarmente rigorosa. È un aspetto da tener presente, come pure il fatto che il Mes, per poter intervenire, deve ritenere – già in via preventiva – che il debito pubblico del Paese oggetto di assistenza sia sostenibile.
Su quale base verrebbe fatta questa valutazione?
A oggi non c’è una teoria economica che ci dia un valore puntuale oltre il quale il debito cessa di essere sostenibile. Il caso del Giappone è eclatante, visto che si diceva che il suo debito non era sostenibile quando era al 140% del Pil, ma risulta ancora esserlo ora che è diretto verso il 300%. Del resto anche l’Italia, economia sistemica dell’Eurozona, con un debito pubblico importante, sta riuscendo a rifinanziarsi a tassi ottimali con una valutazione parimenti positiva, date le circostanze, delle agenzie di rating. Questo sta a dimostrare che è possibile stabilire un equilibro virtuoso anche in una situazione critica di debito crescente se c’è un quadro supportivo. Un equilibro che però è intrinsecamente fragile e che potrebbe essere compromesso andando a stimolare aspettative negative sulla sostenibilità del debito, come potrebbe avvenire dando al Mes le prerogative che gli si vogliono dare con la riforma.
Di fatto, quindi, il “nuovo” Mes andrebbe a cambiare il quadro attuale in cui è la Commissione europea a valutare il quadro di finanza pubblica di un Paese membro e dov’è la Bce, con la sua azione proattiva, ad aiutare i Paesi a finanziarsi sui mercati…
Di fatto la riforma del Mes prevede un nuovo equilibrio, scritto in “eurocratese”, facendo quindi uso di parole in codice che vanno opportunamente decifrate. Il Meccanismo europeo di stabilità acquisirebbe un profilo di significativa maggior importanza rispetto alla Commissione, che ha un approccio maggiormente comunitario. Di fatto diventerebbe un’agenzia di rating con poteri particolarmente cogenti, visto che dalla sua valutazione di sostenibilità del debito discenderebbero, come abbiamo spiegato poco fa, una serie di implicazioni importanti. C’è poi un altro aspetto da tenere in considerazione, legato alla Bce, di cui in Italia si parla poco.
Di che cosa si tratta?
Della possibilità ventilata in alcuni circoli europei, e veicolata anche da alcuni economisti internazionali di peso vicini a Christine Lagarde, che in futuro Paesi con fondamentali fragili possano o debbano ricorrere al Mes per poter continuare a beneficiare degli interventi della Bce. Come ho già spiegato in una precedente intervista, i falchi rigoristi stanno cercando di fare in modo che gli interventi dell’Eurotower vengano condizionati a una qualche forma di commissariamento macroeconomico dell’Italia, che verrebbe cristallizzata nel momento in cui si ricorresse al Mes.
Lei ci ha descritto le criticità della riforma del Mes. Perché dovremmo preoccuparcene se, come viene detto dagli stessi politici favorevoli a questa riforma, l’Italia non farà mai ricorso al Meccanismo europeo di stabilità?
Mai dire mai. A parte questa che può sembrare una frase fatta, con la riforma si conferiscono al Mes poteri significativi che accentuano il travaso di sovranità dall’Italia a istituzioni europee o intergovernative. Non vedo perché farlo quando nel nostro Paese ci sono opinioni assai diverse al riguardo non solo nell’opposizione, ma anche nella maggioranza. Inoltre, nel momento in cui il ricorso al Mes dovesse essere imposto perché condizione necessaria per continuare a beneficiare di un intervento proattivo della Bce, il nostro Paese si ritroverebbe in posizione subalterna rispetto a un’istituzione come il Mes, rafforzata proprio con la riforma. Infine, dandogli potere di valutazione sulla sostenibilità del debito, comunque si fornisce maggiore trazione al Mes, paradossalmente anche qualora l’Italia non dovesse richiederne il sostegno. Personalmente, non ho alcun problema se una nazione ritiene di dover richiedere l’aiuto di un prestatore internazionale, a patto, però, che sia una sua propria decisione, e sottolineo propria.
Si sottolinea anche che la riforma del Mes anticipa il completamento dell’unione bancaria di due anni. Non è forse un vantaggio?
La possibilità che il Mes possa finanziare la risoluzione delle crisi bancarie implica che comunque venga attivato il bail-in. Il nostro Paese ha già avuto un assaggio di cosa voglia dire, ancorché si sia trattato di alcune banche sicuramente non sistemiche, di quale sia il costo sociale e di quali siano le implicazioni politiche. Occorre quindi valutare attentamente le conseguenze di questa riforma. Non vorrei che proprio come avvenuto con il bail-in, ci si accorga di cosa implichi solo quando ci si troverà a doverla applicare e molti tra quelli che oggi la stanno acriticamente appoggiando cominceranno a prenderne le distanze, come già avvenuto con il bail-in.
Un’ultima domanda: il Tesoro è già riuscito a soddisfare il fabbisogno programmato per quest’anno e ha deciso di cancellare alcune delle aste dei titoli di stato previste per dicembre. Vista la situazione di crisi, non sarebbe meglio procedere con tutte le emissioni?
Per risponderle torno su un tema già affrontato, quello dell’anomalo saldo di Tesoreria, che comporta costi sociali significativi, dato che quella liquidità in eccesso potrebbe essere utilizzata per aiutare il tessuto produttivo italiano. Se il motivo di lasciare queste risorse ferme è quello precauzionale di dover far fronte a spese o rimborsi futuri, non si vede quale sia il motivo di rinunciare a emettere debito tenendo la cassa su livelli persistentemente elevati ormai da tempo. Non mi sembra una gestione della liquidità particolarmente efficiente. Appare piuttosto contraddittorio accumulare liquidità per far fronte a sopravvenienze future e non ricorrere poi al mercato in un momento particolarmente favorevole.
(Lorenzo Torrisi)