La riforma del Mes sarà discussa domani e martedì ai tavoli dell’Eurogruppo e dell’Ecofin, per poi approdare al Consiglio europeo del 10-11 dicembre dove potrebbe arrivare il via libera definitivo che verrebbe poi sancito dalla firma di un nuovo Trattato a gennaio. Il Governo italiano non pare intenzionato a ricorrere al Mes sanitario, ma sembra che, nonostante il tentennamento del Movimento 5 Stelle, il ministro dell’Economia Gualtieri si presenterà ai tavoli europei pronto a offrire piena adesione del nostro Paese al nuovo Meccanismo europeo di stabilità. «Forse a questo punto i lettori saranno un po’ confusi, visto che in questi mesi si è parlato di Mes, ma lo si è fatto – evidenzia Massimo D’Antoni, Professore di Scienza delle finanze all’Università di Siena – con riferimento alla linea di credito legata all’emergenza pandemica. Qui invece si torna a discutere di riforma del Trattato che regola il funzionamento generale di questa istituzione, una questione che era all’ordine del giorno prima del Covid. A fine 2019 eravamo stati in molti a rilevare come questa riforma comportasse dei pericoli per il nostro Paese; c’era stato un appello di un gruppo di economisti e anche qualche voce solitamente meno critica rispetto alle regole fiscali Ue aveva sollevato dei dubbi».



Quali rischi corre l’Italia dicendo sì alla riforma del Mes?

Riprendiamo quanto dicevamo a suo tempo: la riforma aumenta i poteri del Mes nella valutazione della sostenibilità dei debiti dei Paesi membri, e rende esplicito il fatto che l’assistenza finanziaria può essere concessa solo ai Paesi con debito sostenibile; vale a dire che una valutazione negativa sul debito rischia di costringere un Paese in difficoltà a ristrutturare il proprio debito per poter accedere ai fondi del Mes. È vero che il testo del Trattato non prevede automatismi, ma in una situazione di reale necessità un Paese bisognoso di aiuto il cui debito fosse dichiarato non sostenibile avrebbe ben poca scelta. Poi è prevista una revisione delle cosiddette Clausole di azione collettiva (le Cac), finalizzata a ridurre la possibilità che gruppi organizzati di sottoscrittori dei titoli possano opporsi a una ristrutturazione del debito; la modifica viene da molti percepita come un’implicita indicazione che tale ristrutturazione sarebbe ora più probabile.



Il Presidente del Parlamento europeo Sassoli ha recentemente auspicato la trasformazione del Mes in uno strumento comunitario. Cosa ne pensa?

Al di là dei dettagli regolamentari, la questione di fondo è che il Mes incarna una certa visione dei rapporti all’interno dell’eurozona. Il Trattato precisa che il Mes opera “dalla prospettiva del creditore” e dietro imposizione di severe condizionalità, in un’ottica che poco ha a che vedere con un approccio cooperativo e solidaristico. Opporsi alla modifica del trattato sarebbe un modo per rilanciare una diversa prospettiva riguardo al futuro dell’Unione, lasciandosi alle spalle l’epoca dell’austerità imposta come condizione per i salvataggi. Se questo è quanto intende Sassoli parlando di trasformazione del Mes, si tratta indubbiamente di un passo avanti. Sempre che qualcuno gli venga dietro in Europa.



È probabile che il Tesoro cancelli le aste dei titoli di dicembre avendo già soddisfatto, con le ultime emissioni di settimana scorsa, il fabbisogno programmato per quest’anno. Vista la situazione di crisi, non sarebbe meglio procedere con altre emissioni?

Io farei così, ma evidentemente al ministero dell’Economia fanno valutazioni diverse.

Nella scorsa intervista ci aveva detto di ritenere che dietro la scelta di non emettere più debito pubblico, sfruttando così i bassi tassi di interesse, poteva esserci l’intenzione di attivare il Mes sanitario o il timore di suscitare reazioni a Francoforte. Dato che la prima ipotesi sembra non essere più concreta, quali reazioni si teme di suscitare nella Bce? Un “abuso” dell’aiuto che sta fornendo all’Italia tramite il programma di acquisto di titoli di stato Pepp?

È probabile che la ragione sia quella; del resto, che dalle parti di Francoforte ci siano dei malumori sull’azione del presidente Lagarde è noto. Abbiamo visto con la sentenza di Karlsruhe come i programmi di acquisti di titoli siano considerati contrari al mandato della Bce da parte di settori influenti dell’economia e della politica tedesca. Ora, poi, con la proposta della cancellazione del debito…

Questa proposta, oltre che dallo stesso Sassoli, è stata rilanciata l’altro giorno anche dal sottosegretario Fraccaro. È realmente possibile pensare che la Bce cancelli il debito contratto dai Paesi dell’Eurozona per fronteggiare l’emergenza Covid?

In tutta sincerità, non penso che i proponenti abbiano realmente in testa l’idea che la Bce cancelli i titoli del debito pubblico dal proprio bilancio, anche se una cosa del genere, in astratto, per una banca centrale non sarebbe impossibile. Ma la provocazione mette al centro del dibattito due questioni per noi fondamentali.

Quali?

Il comportamento futuro della Bce riguardo ai titoli oggi acquistati e il modo in cui il debito aggiuntivo creatosi per effetto della pandemia sarà considerato ai fini delle regole europee. Dal primo punto di vista, il timore è che a un certo punto la Bce decida di rimettere quei titoli sul mercato, magari a fronte del ripresentarsi di spinte inflazionistiche; la possibilità che i titoli non restino permanentemente nel portafogli della banca centrale è ciò che distingue il Quantitative easing da una vera e propria monetizzazione del debito. Dovendo scegliere tra tollerare un aumento di inflazione e mettere in difficoltà i Paesi a elevato debito, cosa sceglierà Francoforte? Nel mandato della Bce c’è il controllo dell’inflazione, mentre si vieta esplicitamente il finanziamento degli Stati. L’idea di congelare quella parte di debito, magari convertendola in titoli perpetui, è una soluzione estrema, quasi certamente irrealizzabile anche perché contraddice le regole di base sulle quali è stato costruito l’euro, ma pone una questione seria e per noi vitale.

E le regole fiscali? Come ci siamo detti più volte, una volta che verrà meno il supporto della Bce e torneranno in vigore le regole del Patto di stabilità ora sospeso, l’Italia si troverà in seria difficoltà, sostanzialmente c’è da pensare che scatterà una procedura d’infrazione…

Esattamente. Questo è il secondo aspetto, la seconda declinazione dell’idea di cancellazione del debito: l’intervento di Sassoli e Fraccaro potrebbe preludere alla proposta di non conteggiare il maggiore debito contratto quest’anno ai fini delle regole europee. Se prendiamo per buone le previsioni di un rapporto debito/Pil italiano al 160% a fine 2021, il Patto di stabilità ci imporrà un rientro a un ritmo del 5% annuo. Per rispettare una tale traiettoria dovremmo andare ben oltre il pareggio di bilancio, dovremmo avere un bilancio in avanzo. È una prospettiva cui non crede nessuno.

Andremo incontro necessariamente alla ristrutturazione del debito pubblico? Allora ci troveremo costretti a ricorrere al Mes?

Come minimo una procedura per deficit eccessivo, con tutto quanto ne consegue in termini di obblighi di rientro. Ma, qualora gli investitori cominciassero a dubitare della sostenibilità del nostro debito, il ricorso al Mes sarebbe inevitabile, e a quel punto non considererei remota la possibilità di una ristrutturazione del nostro debito. Per questo le ipotesi di Sassoli e Fraccaro, per quanto provocatorie possano apparire, sono coerenti con la drammaticità del quadro. Si tratta di capire se qualcun altro vorrà rilanciare, magari la Francia, che gli effetti del Covid sulle finanze pubbliche li sta subendo quanto noi se non di più.

(Lorenzo Torrisi)