Correva il “lontano” anno 2021 quando, il 10 marzo, veniva sottoscritto tra il presidente del Consiglio dei Ministri, il ministro per la Pubblica amministrazione e le Organizzazioni sindacali confederali il “Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale“. L’importante strumento di intenti sull’immediato futuro dei lavoratori pubblici e sul loro ruolo per la ripresa del Paese seguiva di un solo giorno le “Linee programmatiche in tema di Pubblica amministrazione in vista del PNRR” che lo stesso Ministro Brunetta aveva illustrato alle commissioni Affari Costituzionali e Lavoro di Camera e Senato riunite in seduta comune.
In mesi segnati un’Amministrazione costretta a districarsi per parte alquanto significativa delle sue funzioni tra le maglie di uno smart working “pandemico”, foriero di tante ombre, ma anche di non poche e inaspettate luci, in grado di ridestare tensione ideale e dimensione operativa del lavoro pubblico attraverso una ritrovata centralità della “economia di senso”, bastava una rapida scorsa ai due documenti appena richiamati per ricevere chiara la sensazione, anche per l’occhio meno esperto, di quello che si annunciava come un sostanziale cambio di passo della politica, prima ancora che della tecnica, nel fronteggiare l’atavico problema relativo al buon funzionamento del nostro apparato pubblico.
Un approccio certamente distante, almeno nelle intenzioni, da quello che aveva ispirato le riforme dell’apparato pubblico nostrano succedutesi nell’ultimo quarto di secolo, inclusa quella del 2009 a firma dello stesso Brunetta.
Basta leggere il primo rigo del Patto nel quale si sottolinea che: “Il nostro Paese riparte dalle donne e dagli uomini della Pubblica Amministrazione, nello Stato, nelle Regioni e negli Enti locali, nel sistema della Conoscenza e della Sanità…”. Affermazione in cui riecheggia l’impegno solennemente assunto nella premessa delle Linee programmatiche, secondo il quale “Le persone saranno al centro della nostra azione: persone che lavorano per la nostra amministrazione e persone che attingono da essa servizi e beni pubblici“.
Alla luce di questa fiduciosa enfasi sulla ritrovata centralità della persona quale bussola cui affidarsi nel condurre in porto quel rilancio della Pubblica amministrazione, necessario per fruire a pieno, tra l’altro, dei fondi stanziati dall’Unione europea per il Pnrr, è lecito domandarsi cosa possa essere cambiato a poco meno di un anno di distanza, tanto da indurre le esternazioni dei primi di febbraio 2022 che non poche polemiche hanno suscitato.
“Vaccini e presenza, vaccini e gente sul posto di lavoro. Non lo smart working, non chiudersi in casa e non vaccinarsi, ma vaccini, vaccini, vaccini…” – ha infatti tuonato il Ministro (e certamente ben venga l’appello a utilizzare al meglio l’arma del vaccino), ponendo sul tappeto la sua radicale opzione – “Piuttosto che chiusi a casa, con il telefonino sulla bottiglia del latte a fare finta di fare smart working – perché diciamocelo, a fare finta di lavorare da remoto, a parte le eccezioni che ci sono sempre – [è meglio puntare su] vaccini, vaccini, vaccini e presenza, con una migliore organizzazione del lavoro“.
Per la verità qualche larvata crepa si era già manifestata in occasione della recente lettera ai dipendenti delle Amministrazioni italiane con la quale, dopo avere riaffermato che “la Pubblica amministrazione, con i suoi 3,2 milioni di dipendenti, è il perno della ricostruzione del Paese e il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza individua nelle persone, prima ancora che nelle tecnologie, il motore del cambiamento“, Brunetta conclude ricordando come “La sfida della nuova Italia si vince insieme: persone qualificate qualificano il Paese“.
È proprio quest’ultima affermazione (più che la prima) a rendere ragione dell’inedita missiva e del suo sostanziale contenuto: chi lavora nella Pubblica amministrazione sarà pure importante per il futuro del Paese, ma è privo delle competenze necessarie per farvi fronte.
Forte di questa consapevolezza il Governo aveva, per la verità, già introdotto nel Pnrr un’ampia serie investimenti raggruppati sotto la voce “Competenze e capacità amministrativa”, vincolando una quota rilevante delle risorse finanziarie attribuite per queste finalità alla realizzazione di quello che ha poi preso corpo come “Piano strategico per la valorizzazione e lo sviluppo del capitale umano della PA“, iniziativa che la lettera ministeriale si occupa di illustrare a tutti i dipendenti pubblici come insostituibile opportunità, peraltro in periodico aggiornamento, di colmare un gap di competenze professionali divenuto ormai insostenibile.
Si tratta evidentemente di un’azione indispensabile per stare al passo con le sfide di qualificazione ed efficienza che il presente, prima ancora del futuro, non da oggi riserva all’intero apparato pubblico, in funzione di un servizio da svolgere in termini sempre più competenti e consapevoli della responsabilità esso riveste per il bene comune dell’intero Paese. Ma in questo orizzonte qualcosa di quel primato della persona, solennemente evocato agli inizi del 2021 quale chiave dell’innovazione, sembra davvero essersi persa per strada, tanto nella strategia che nel lessico operativo utilizzato fronteggiare il pur innegabile fabbisogno formativo dei dipendenti pubblici.
Si tratta di un rilevante sottinteso secondo il quale la quotidianità professionale dei dirigenti e dei funzionari che attualmente popolano gli uffici di un assessorato o di un ministero poco o nulla avrebbe da offrire in termini di esperienze di funzionalità e innovazione, riconoscibili come virtuose tappe già in corso dell’itinerario di transizione culturale cui l’Amministrazione pubblica è tenuta ed esportabili, quindi, come altrettanti modelli a partire dai quali orientare il cambiamento organizzativo richiesto (piccolo o grande che sia) nei diversi settori dell’azione amministrativa.
È proprio questa cornice a chiamare in causa il ruolo strategico di soggetti che, operando come vere e proprie comunità professionali, sappiano promuovere e valorizzare strumenti di ricerca, di confronto, di valutazione delle esperienze in atto e di divulgazione della conoscenza, anche in chiave formativa, utilizzando l’irrinunciabile contributo di analisi critica e di proposta offerto dagli stessi stakeholders esterni all’Amministrazione.
Sotto questo profilo sono da registrare con grande interesse le parole di Paola Severino che, nella sua qualità di nuovo presidente della Scuola Nazionale dell’Amministrazione (SNA), oggi notevolmente potenziata nelle sue competenze, non ha mancato di richiamare tra gli “insegnamenti innovativi” in grado di contribuire al salto di qualità che in chiave formativa la stessa Scuola si prefigge lo strumento delle comunità di pratica.
Ben lungi dal costituire soltanto una pur chiara dichiarazione d’intenti il richiamo della Severino trova esplicito riscontro, tanto in termini strategici che finanziari, all’interno dello stesso Pnrr che tra gli investimenti sulle competenze e la capacità amministrativa già citati ha introdotto le “comunità di competenze” (Community of Practice) con lo scopo di promuovere e diffondere buone prassi a tutto vantaggio di cittadini, corpi intermedi e imprese.
L’obiettivo dichiarato è quello di attivare, con una dotazione finanziaria di 4 milioni di euro, circa 20 comunità tematiche (a titolo esemplificativo il Piano parla di human capital, digital transformation, green transformation, ecc.) trasversali alle diverse amministrazioni, coinvolgendo in atto il solo livello dirigenziale, con un numero compreso tra i 100 e i 150 dirigenti per ciascuna community.
Allora appare di tutta evidenza il ruolo che proprio un organismo come la SNA, tanto più nella sua attuale presidenza e rinnovata configurazione istituzionale, potrà svolgere per la messa a terra di questo caratterizzante profilo del più vasto programma che il Governo ha avviato per il rafforzamento della capacità amministrativa del nostro apparato pubblico, creando le premesse affinché, sulla base dell’esperienza realizzata, il modello possa auspicabilmente estendersi quanto prima al di là del solo comparto dirigenziale.
In conclusione, più che affidare l’urgenza evolutiva e di potenziamento delle strutture professionali pubbliche chiamate a gestire la ripresa a un procedere per astrazioni tematiche e organizzative conviene forse orientarsi ben più marcatamente, per dirla prendendo a prestito la riflessione di Daniele Donati in un breve saggio degli inizi del 2021 dal titolo “La strada del fare”, verso un approccio induttivo in grado di tracciare modelli d’intervento diversificati in base alle specificità proprie dei diversi settori e livelli di governo.
Un percorso di riforma e qualificazione delle competenze professionali della nostra Amministrazione pubblica utile a dotarla, dunque, di capacità d’intervento e strumenti rivolti alla cura di interessi pubblici dal carattere sempre più specifico e complesso, obiettivo rispetto al quale le esperienze maturate sul campo, tra le quali vale probabilmente la pena di includere per alcuni aspetti quella dello smart working, possono davvero svelare il loro inimmaginabile potenziale d’innovazione.
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