Un timido cambio di passo nella ricerca di una Pubblica amministrazione più efficiente, ma sempre all’insegna di slogan difficili da estirpare. La nuova inquilina di Palazzo Vidoni, Fabiana Dadone, nell’intervista rilasciata a Il Messaggero nei giorni scorsi, prova a cambiare in parte la linea dettata fino a pochi giorni fa dal precedente Ministro, Giulia Bongiorno. Gli elementi di maggiore discontinuità annunciati appaiono due: i controlli biometrici sulle presenze e l’utilizzo delle graduatorie per chiamare gli idonei.

In quanto ai controlli, l’introduzione della rilevazione delle presenze con metodi “anti furbetti”, come l’impronta digitale, è stato uno dei cavalli di battaglia del precedente Ministro. La Dadone non rinnega l’utilizzo delle tecnologie, considerate (ovviamente) utili allo scopo. Traspare, però, l’intenzione di non fare della questione la facile battaglia per procacciare consensi di breve durata. Il Ministro Dadone, nell’evidenziare che i controlli sono necessari per debellare i comportamenti che danneggiano, oltre che le casse e i cittadini, anche i lavoratori pubblici onesti e meritevoli, afferma che non vuole adottare queste misure colorandole di quei toni punitivi indubbiamente propri da Brunetta in poi delle riforme della Pa.

Condivisibilmente, il Ministro cerca di spostare l’attenzione sull’annoso e fondamentale problema della valutazione: oltre che sapere chi ha timbrato, è necessario che le amministrazioni pubbliche siano capaci di capire cosa viene fatto tra una timbratura e l’altra, per determinare standard di servizi e qualità delle prestazioni.

In quanto alle graduatorie, sembra che il nuovo Ministro intenda fare una marcia indietro sull’idea di chiudere le porte agli idonei, che ha caratterizzato gli ultimi mesi, per riaprire i termini di validità delle graduatorie precedenti e forse tornare a consentire la formazione di idonei per quelle nuove. Si tratta solo di impressioni, che andranno tradotte in decisioni effettive.

Per il resto, l’intervista non induce a ritenere imminente una decisa svolta nel modo di condurre, concepire e riformare la Pa. Vi è la solita ecumenica intenzione di incontrare tutti i portatori di interesse, l’intento di rendere più semplice il dialogo tra imprese e Pubblica amministrazione, il precetto della valorizzazione del merito.

Non si può certo affermare, tuttavia, che si tratta di qualcosa di originale. Il Ministro Dadone, ad esempio, si sofferma sulla “piena interoperabilità degli Sportelli unici per le attività produttive e delle banche dati, in un solo portale web bisogna poter trovare tutte le informazioni utili alle aziende, bisogna eliminare la proliferazione dei controlli fotocopia”. Ottima idea, ma è dal 1997, anno di creazione degli sportelli unici, che viene esposta, senza aver chiarito prima l’elemento dirimente: se i Suap ancora non sono un punto unico di snodo nei rapporti con le imprese è certo per l’assenza di dialogo tra le banche dati di 8.100 comuni, camere di commercio e altri enti, ma soprattutto perché non è mai stato definitivamente chiarito che il Suap non deve essere né un passacarte, né un semplice facilitatore di processi gestiti da altri. Per funzionare, deve divenire il responsabile diretto delle pratiche.

Anche le promesse sullo sblocco dei contratti e il reperimento delle risorse (5 miliardi) è un deja vu: quale Ministro della funzione pubblica si inimicherebbe 3 milioni di potenziali elettori negando il diritto del rinnovo dei contratti, specie mentre è ancora forte la memoria di un decennio di blocco della contrattazione? Ma, al di là del necessario reperimento delle risorse, sarebbe il caso una volta e per sempre di chiarire a cosa davvero servano i contratti nel lavoro pubblico. Attualmente, la normativa vigente di fatto nega alle pubbliche amministrazioni una vera autonomia contrattuale, mentre le regole per determinare le risorse da mettere a disposizione dei lavoratori e, soprattutto, per erogarle, sono ancora confusionarie e fonti di contenzioso infinito.

Per un verso, appare corretto l’approccio della Dadone quando mostra understatement affermando di non voler promuovere riforme eclatanti, che buttino giù tutto. Ottimo. Tuttavia, questa intenzione dovrà essere corroborata dai fatti. Anche la Bongiorno aveva detto di non perseguire più le riforme epocali e di limitarsi alla “concretezza”; ma giace in Parlamento un disegno di legge delega di riforma della Pa di vastissima portata, nella sostanza ripetitivo di molti dei punti negativi dei fallimentari approcci dell’ex Ministro Madia.

Oltre, allora, ad agire senza cercare la “grande riforma”, sarebbe ottimale se il nuovo Ministro bloccasse l’iter della delega legislativa avviata dalla Bongiorno, ma al contempo prevedendo qualche riforma, minima, ma necessaria. A partire dalla contrattazione e dalla premialità. O si attribuisce alle Pa una vera autonomia negoziale o si prenda atto che se ciò non è possibile è solo dannoso il livello contrattuale aziendale. Sui premi per il merito, una riforma minimale ma significativa consisterebbe nel seguire buoni esempi.

Nei giorni scorsi la stampa si è soffermata sui premi di circa 2.200 euro che la Ferrero ha attribuito ai propri dipendenti: sarebbe consigliabile leggere quanto semplice è il sistema col quale l’azienda ha valutato il proprio operato e assegnato il premio per comprendere che tutto l’apparato realizzato nella Pa soprattutto dal 2009 in poi merita di essere profondamente rivisto.

Programmi di questa natura soltanto possono dimostrare che le dichiarazioni di intenti siano davvero fondate e capaci di rilanciare davvero la Pa.