La riforma della Pubblica amministrazione rimane la condizione essenziale per il raggiungimento degli obiettivi posti in capo all’attuazione del Pnrr. Il tema viene sottolineato in particolare per la capacità della macchina amministrativa di mettere in moto le risorse finanziarie pubbliche disponibili in termini di progettazione e di attuazione con il concorso degli altri attori pubblici e privati coinvolti, di gestione dei procedimenti di controllo e di rendicontazione del loro impiego. Una condizione primaria imposta dall’esigenza di rispettare i tempi di attuazione degli impegni assunti con le Istituzioni dell’Ue che comportano, tra l’altro, il raddoppio dei volumi degli investimenti reali rispetto la media di quelli messi in campo nel decennio precedente la pandemia.
Per questa finalità il Governo Draghi ha predisposto e implementato due linee di intervento: il varo di programmi di potenziamento quantitativo e qualitativo delle risorse umane finalizzato alla gestione dei provvedimenti; le semplificazioni delle procedure burocratiche per accelerare l’approvazione e l’attuazione degli stessi. Ma gli obiettivi di sistema contenuti del Pnrr, in particolare quelli rivolti alla digitalizzazione dei servizi e per la sostenibilità ambientale dell’economia, dalle quali dipendono buona parte degli incrementi di produttività attesi nei prossimi anni, sono fondati sul presupposto che la Pubblica amministrazione possa svolgere un ruolo trainante per la definizione dei contenuti strategici degli interventi e per incrementare il tasso di innovazione complessivo del sistema (si pensi ad esempio all’importanza della digitalizzazione degli accessi e delle prestazioni dei servizi pubblici, della telemedicina, della tracciabilità delle transazioni finanziarie ai fini fiscali, dei monitoraggi del territorio e dell’ambiente…).
Un approccio che richiede una visione più complessiva del ruolo futuro delle Amministrazioni pubbliche e delle riforme necessarie per adeguare il loro funzionamento, che va oltre la mera predisposizione dei provvedimenti legislativi e attuativi per coinvolgere la sfera degli approcci culturali e dei comportamenti delle risorse umane. Aspetti che, allo stato attuale, rivestono un ruolo del tutto marginale nel dibattito pubblico sulla materia.
Il programma di potenziamento del personale della Pubblica amministrazione prevede sul piano numerico il ripristino graduale dei livelli occupazionali vigenti, circa 3,2 milioni di dipendenti pubblici, compensando gli esodi per pensionamento, e un parallelo ricambio generazionale del personale. Gli uffici della Ragioneria dello Stato lo hanno quantificato in circa 700 mila nuove assunzioni, equivalenti alle fuoriuscite di personale anziano nel corso dei prossimi 5 anni, ma che non deve essere inteso come un mero ripristino del turn over nelle singole amministrazioni.
La gran parte di questo ricambio avviene per l’obiettivo di potenziare le professionalità (con circa 450 mila laureati) che possono svolgere un ruolo trainante per la gestione delle innovazioni tecnologiche e organizzative nelle Pa, con alle spalle solidi percorsi formativi e auspicabilmente anche delle esperienze professionali maturate in ambiti lavorativi. Personale che dovrebbe essere inserito in organizzazioni in grado di valorizzare le loro competenze e predisposte ad assecondare l’attuazione delle innovazioni.
Ipotesi che comporterebbero in parallelo nel corso dei 5 anni previsti delle ricadute estremamente positive nel mercato del lavoro italiano con rilevantissimo incremento della domanda di professionalità medio elevate per le giovani generazioni.
Nei mesi recenti sono stati avviati una serie di concorsi per l’assunzione di personale con contratti a termine di media e lunga durata che, nonostante la notevole semplificazione dei modelli di selezione del personale, hanno già fatto intravedere una serie di criticità. Le professionalità richieste per la gestione dei provvedimenti del Pnrr (progettisti, ingegneri gestionali, informatici, gestori di procedimenti amministrativi, rendicontatori), sono quelle più ricercate nel mercato del lavoro, che riscontrano una penuria di offerta e che vengono contese, con trattamenti salariali, benefit e rapporti di lavoro a tempo indeterminato, dalle imprese private. Di fronte a questa evidenza, che era del tutto prevedibile, la risposta che viene messa in atto è quella di abbassare l’asticella dei requisiti per la selezione. Risposta obbligata, ma che deve mettere in conto le conseguenze operative negative che ne derivano in termini di carenza di professionalità e di esperienze maturate.
Una possibile soluzione potrebbe essere quella, già adottata negli ambiti della valutazione/rendicontazione dei fondi europei, di avvalersi forme di professionalità e di imprese esterne all’amministrazione e di instaurare con le Università dei percorsi organici per la formazione del nuovo personale.
Per rendere sensibili e adeguate le amministrazioni ai percorsi di innovazione tecnologica e organizzativa è stato predisposto un massiccio programma di formazione, con adesione volontaria del personale, con l’intenzione di valorizzazione le esperienze formative nell’ambito dei percorsi di crescita professionale dei dipendenti pubblici. La novità è importante. Lo sarebbe anche di più se, in parallelo, fosse accompagnata dalla revisione delle procedure di mobilità interna alle amministrazioni che risulta indispensabile per migliorare la produttività, ma che rimane delimitata nel perimetro della disponibilità volontaria dei dipendenti eventualmente interessati alle nuove posizioni lavorative, riscontrabile attraverso la procedura burocratica degli interpelli pubblici promossi sulla base del ripristino motivato del turn over e dei posti vacanti.
Questo impianto procedurale è il lascito finale della lunga stagione dei tagli lineari della spesa della Pubblica amministrazione, basata essenzialmente sull’esodo pensionistico del personale e sul blocco del turn over, che ha generato una serie di conseguenze negative. La prima, ben evidenziata nell’indagine della Ragioneria dello Stato, riguarda l’invecchiamento dei dipendenti della Pubblica amministrazione. Tra i quali poco meno del 40% (55% per le Amministrazioni centrali e i Ministeri), circa 1,2 milioni, hanno più di 55 anni. Solo un dipendente ogni 10 risulta avere un’età inferiore ai 35 anni. Tassi di invecchiamento e di mancato ricambio generazionale che non trovano riscontro nelle altre Amministrazioni pubbliche dei Paesi aderenti all’Ocse.
Ne consegue che la testa di una buona parte del personale, più che ad aggiornare le proprie competenze, è rivolta comprensibilmente a programmare il percorso di vita post lavorativo. Gli esodi pensionistici danno buoni esiti nelle politiche di riduzione del personale nelle aziende private, a fronte della mobilità interna rivolta a compensare le eventuali carenze operative che ne derivano e di nuovi innesti professionali mirati a gestire le innovazioni. In assenza di tutto ciò, le amministrazioni rischiano di scontare un allungamento dei tempi di erogazione delle prestazioni ordinarie. Cosa che è puntualmente avvenuta in moltissime amministrazioni, nonostante l’introduzione delle tecnologie digitali, anche per gli effetti generati dalle uscite pensionistiche legate a Quota 100 e all’improvvisata introduzione dello smart working durante la pandemia Covid.
La scelta di lavorare presso l’abitazione o nei centri pubblici di coworking delle amministrazioni pubbliche che in altri Paesi costituiscono una forma ordinaria di erogazione delle prestazioni, se opportunamente collocate all’interno di una riorganizzazione digitale delle amministrazioni stesse e con la costruzione di solide banche dati condivise, potrebbero costituire una soluzione per favorire una gestione più flessibile del personale e della mobilità interna. Ma tutto questo può avvenire solo mettendo al centro della riorganizzazione gli utenti dei servizi e coinvolgendoli attivamente nella valutazione della qualità delle prestazioni erogate e la distribuzione della quota del monte salari legata ai risultati ottenuti.
Allo stato attuale questi obiettivi vengono programmati e monitorati in modo del tutto autoreferenziale dagli apparati amministrativi stessi per la comprensibile esigenza di massimizzare la redistribuzione degli importi accantonati su tutto il personale.
In estrema sintesi: la disponibilità di nuove risorse e i fabbisogni quantitativi e qualitativi di nuovo personale per le Pa possono diventare una leva importante per offrire risposte alle esigenze di innovazione delle organizzazioni delle amministrazioni e un contributo rilevantissimo per migliorare la qualità della domanda nell’intero mercato del lavoro. Ma queste opportunità possono essere colte solo alla condizione di un fortissimo coinvolgimento delle Istituzioni formative e delle organizzazioni professionali per rendere disponibile un’offerta di professionalità che oggi risulta estremamente carente nel mercato del lavoro. Le tecnologie digitali, il ricambio generazionale e l’incremento delle competenze del personale, per quanto indispensabili, non assicurano i recuperi di qualità e di produttività dei servizi, in assenza di una gestione flessibile delle organizzazioni e di una mobilità del personale esigibile. La condizione di ottenere risultati tangibili e verificabili, in assenza dei riscontri di mercato che vengono utilizzati dalle aziende private per la valutazione dei risultati, deve essere ottenuta con il pieno coinvolgimento degli utenti nella valutazione dei servizi erogati.
Sulla materia le scelte sinora operate dal Governo in carica, a cui va riconosciuto il merito di aver ridimensionato l’approccio corporativo e clientelare messo in campo da quello precedente, basato sull’estensione anacronistica dello smart working per la maggioranza dei dipendenti, rimane limitato ai tentativi di accelerare le assunzioni del personale anche per conto delle amministrazioni periferiche, di potenziare gli investimenti formativi per migliorare le competenze del complesso dei lavoratori e di consolidare un clima sociale favorevole con il rinnovo dei contratti collettivi.
Ma l’approccio olistico finalizzato a generare il complesso delle ricadute auspicate nel Pnrr rimane carente nelle intenzioni dello stesso esecutivo, privo di attenzione nelle forze politiche e confinato nell’arena dei buoni propositi all’interno del confronto con le organizzazioni sindacali. Per il momento questi limiti si esprimono nei ritardi delle procedure di attuazione dei provvedimenti. Con gli esodi di personale già di fatto programmati e in assenza di riorganizzazioni in grado di aumentare la produttività, le conseguenze rischiano di trasferirsi negativamente nella gestione delle prestazioni ordinarie verso i cittadini.
La riforma della Pubblica amministrazione non è una sfida persa in partenza, ma, per il momento, i buoni propositi rimangono lontani dagli obiettivi annunciati.
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