Registrato che il clima nei confronti della Pubblica amministrazione e dei dipendenti è cambiato dagli anni degli slogan che urlavano ai fannulloni, è opportuno un sano realismo sulle difficoltà e i rischi connessi alla fase aperta con le Linee Programmatiche di riforma e col Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale. Non si tratta, ovviamente, di proporre critiche aprioristiche su un impianto tutto da tradurre in atti e, da quel che si comprende, soprattutto contratti collettivi di lavoro. Quanto, piuttosto, di avere consapevolezza delle questioni da affrontare e risolvere.



Partiamo proprio dalle relazioni sindacali. Il confronto aperto dal Premier e dal ministro della Funzione pubblica è stato molto apprezzato dai sindacati ed è da considerare peraltro inevitabile e doveroso, specie da parte di un Governo di unità nazionale. Che non può certamente impostare rapporti conflittuali con le parti sociali e i corpi intermedi.



Occorre ricordarsi, però, che uno dei punti qualificanti della riforma avviata nel 2009 dall’allora ministro della Funzione Pubblica, che si ritrova anche oggi a occupare il medesimo ruolo, fu il contenimento dell’eccessiva estensione del peso dei sindacati nel lavoro pubblico. Un rapporto di lavoro, giusto ricordarlo, che dispone già di per sé, al di là delle tutele sindacali, di significative tutele oggettive, strettamente connesse alla durevolezza delle funzioni, la cui indispensabilità nel tempo è la premessa per l’impostazione delle linee di riforma da parte del Governo.



La Pubblica amministrazione negli anni si è dimostrata, spessissimo, un pessimo datore di lavoro e un negoziatore ancora peggiore, nel processo di sottoscrizione dei contratti decentrati. Troppe volte, i contenuti negoziali sono fortemente influenzati da pressioni della politica (che dovrebbe limitarsi ai soli atti di indirizzo, ma poi tracima verso il dettaglio delle singole clausole), tentata ovviamente sia dalla ricerca di consenso tra i dipendenti, sia, soprattutto, dalla “non belligeranza”, sempre connessa al radicamento elettorale, con i sindacati. Il risultato? Le ispezioni del Mef da anni segnalano contratti decentrati viziati da cattiva quantificazione delle risorse, spesso al di là delle soglie consentite, e altrettanto inefficiente allocazione in indennità varie, molte volte prive di costrutto.

Una nuova stagione di relazioni sindacali deve puntare al miglioramento dell’efficienza, scongiurando i rischi di un nuovo consociativismo. Bene puntare sulla contrattazione per regolare aspetti dello smart working come il diritto alla disconnessione e l’aggancio lavoro-vita; sarebbe, però, un errore la ricerca dell’accordo su “chi” disporre in lavoro agile e su “quali” attività gestire in tal modo: queste sono incombenze da lasciare in via esclusiva al datore di lavoro pubblico.

C’è, poi, il tema sempre delicato e vivo della “valutazione oggettiva della produttività”, espressamente preso in considerazione dal Patto Governo-sindacati. Le Linee programmatiche dell’inquilino di palazzo Vidoni suggeriscono di “riprendere alcuni istituti contenuti nel d.lgs 150/2009, ma mai messi in pratica”.

Sarebbe, invece, opportuno ripensare profondamente quell’impianto, affetto da due evidenti vizi. Il primo: punta eccessivamente sulla valutazione della prestazione individuale. Ma, le organizzazioni debbono puntare a comprendere l’efficacia dell’azione complessiva e delle strutture nelle quali si articolano: l’apporto individuale deve essere solo una componente limitata di differenziazione, per evitare valutazioni frammentarie e poco saldate con la realtà, anche considerando la difficoltà a un rapporto di conoscenza immediata e diretta tra valutato e valutatore.

Il secondo problema: la farraginosità delle norme e dei metodi. La riforma del 2009 ha puntato troppo sulla definizione di “cicli” di programmazione, atti organizzativi, sistemi di valutazione, organismi indipendenti di valutazione, spesso pletorici, costosi e solo formali. Lo smart working ha insegnato che più dei troppi programmi (tra essi, ad esempio, il Pola che si spera venga presto eliminato) conta conoscere le metriche del lavoro: i compiti che ciascuno svolge, il modo di operare, le risorse e gli strumenti utilizzati, i tempi standard necessari.

Sarebbe ora di puntare, quindi, a definire “cosa” i dipendenti fanno, perché solo in tal modo si riesce a rivedere le modalità, adeguandole al digitale, alle piattaforme telematiche, all’accesso da remoto; solo con la descrizione chiara dei compiti da svolgere si riesce a misurare il lavoro, sia che sia svolto nella sede, sia che sia in altro luogo, in modalità agile.

I documenti programmatici del Governo, poi, tra i tanti punti, ne toccano uno che si rivela il principale e decisivo: l’ipertrofia normativa. Quella che rende gli appalti un labirinto, la necessaria prevenzione del rischio di corruzione e conflitto di interessi un reticolo di meri adempimenti burocratici e formali, l’attività di tecnici come ingegneri, spesso una burocratica funzione certificativa, la disciplina del rapporto di lavoro un’insieme intricatissimo di vincoli operativi, tetti di spesa, condizioni e presupposti che invece di flessibilizzare, imbrigliano.

Le norme sono troppe e troppo formali: nella gestione di un procedimento di espropriazione, occorre ripetere tre volte la comunicazione dell’avvio del procedimento; la conferenza dei servizi dovrebbe semplificare gli iter obbligando le varie amministrazioni competenti a decidere in un’unica sede, ma ve ne sono sette tipologie.

Le norme vanno sfoltite, gli iter rivisti alla luce delle risorse del digitale, la forma abbandonata. Basti un solo esempio: per sottoscrivere i contratti di appalto, gli ufficiali roganti debbono applicare la Legge Notarile, che è del 1913, tempo nel quale non c’erano internet, risorse informatiche, firma e identità digitale. Si impone quindi la sottoscrizione “alla presenza” proprio fisica dell’ufficiale pubblico che riceve il contratto. Mantenere ancora simili arcaismi non è possibile. E le norme ne sono piene. 

La valorizzazione del lavoro pubblico e il potenziamento delle funzioni della Pa deve necessariamente passare per il serio ripensamento a tutta questa congerie di regole che appesantiscono da sempre l’azione degli uffici pubblici.