Il via libera al Pnrr con i 145 obiettivi rivisti è un altro degli ostacoli che il Governo ha superato nell’ultimo mese dopo le pagelle delle agenzie di rating e il giudizio della Commissione europea sulla politica di bilancio. È stato un novembre senza dubbio positivo. Ma il circuito europeo resta ancora pieno di inciampi e gli ultimi due, la riforma del Patto di stabilità e l’approvazione della riforma del Mes, rischiano di essere i più ostici. L’incontro tra Olaf Scholz e Giorgia Meloni mercoledì scorso a Berlino è andato bene. Germania e Italia non si fanno illusioni su Vladimir Putin anche se sentono la fatica per una guerra che doveva essere lampo e s’è trasformata in guerra di trincea. Nessuna ambiguità nemmeno su Hamas. Quanto ai migranti, terreno minato, si può trovare un modus vivendi. Non solo: il vertice di Berlino ha aperto un percorso ambizioso che porta a una cooperazione strategica rafforzata e i due capi di governo hanno firmato un Piano di Azione. Tutto per il meglio, tranne un dettaglio dove si nasconde, come in tutti i dettagli, un diavoletto. Sulla riforma del Patto di stabilità resta una distanza considerevole. C’è la volontà di colmarla, ma per ora le posizioni sono lontane.
Nel suo confronto con il ministro delle Finanze Christian Lindner, l’omologo italiano Giancarlo Giorgetti ha ribadito che la riduzione del deficit e del debito deve essere “graduale e realistica”, evitando che le nuove regole siano procicliche come le vecchie, cioè peggiorino le crisi con strette fuori luogo e fuori tempo, in omaggio a un’astratta “austerità”. Graduale, realistico, non anticiclico, flessibile, attributi sui quali Lindner stesso non può che essere d’accordo. Tuttavia il liberale tedesco teme che affidarsi a una trattativa tra Commissione e Governo alimenti solo equivoci e ritardi. Quindi insiste nel chiedere che il sentiero che la Commissione dovrà tracciare indichi una percentuale annua. Numeri chiari e scritti, non solo parole. Su questo il Governo tedesco ha raccolto il consenso dei cosiddetti falchi (dall’Olanda alla Finlandia), ma non della Francia e della Spagna.
I francesi sono stati bacchettati duramente dalla Commissione europea secondo la quale la legge di bilancio presentata da Parigi è del tutto fuori linea rispetto alle raccomandazioni di Bruxelles e andrebbe rifatta. Con un deficit del 5% e un debito che s’avvicina al 110%, la Francia non ha più margini. Potrebbe sfidare la Commissione, ma sarebbe rischioso. Dunque punta ad aumentare al massimo i margini di flessibilità previsti dal nuovo Patto. Gli spagnoli in teoria potrebbero unirsi al club dei virtuosi, ma sono realisti e cercano anche loro un accordo che conceda più tempo per l’aggiustamento (da 4 a 7 anni è la loro proposta). L’Italia è ormai il Paese con il debito più elevato, dunque è sotto tiro, non solo da Bruxelles, ma dai mercati, perché il merito di credito dei titoli di stato italiani resta vicino ai minimi.
Sul Patto di stabilità c’è una bozza per trovare un’intesa di qui all’Ecofin del 7 e 8 dicembre. Il Sole 24 Ore ha pubblicato un riassunto del nuovo regolamento diviso in 34 articoli. In estrema sintesi, ogni Paese dovrà presentare alla Commissione un piano di quattro anni, allungabile a cinque con le riforme, gli investimenti e le compatibilità finanziarie. Chi ha un deficit oltre il 3% e un debito superiore al 60% deve seguire la “traiettoria tecnica” indicata dall’Ue per rientrare nei ranghi entro quattro anni, estendibili a sette solo a certe condizioni indicate nell’articolo 13. Tra quelle che possono aprire la strada a un aggiustamento di bilancio con un periodo più lungo, ci sono alcune condizioni sulle quali ha insistito l’Italia, per esempio gli investimenti per la transizione ecologica e digitale, la difesa (un punto caro alla Francia), la coesione sociale ed economica.
Sono voci che restano nel calcolo del disavanzo pubblico, ma possono fornire le giustificazioni per prendere tempo e ammorbidire l’impatto dei tagli. Per i falchi si tratta in realtà di alibi, non si fidano e vogliono certezze. Una rigidità che ha le sue ragioni tenendo conto che nemmeno la Francia ha mai rispettato il vincolo del 3% ed è stata sanzionata più volte, per lo più inutilmente. Non c’è solo l’Italia, dunque, ma la Francia non corre il rischio di un crac finanziario, l’Italia ci è andata vicino nel 2011.
Sarà interessante capire come inciderà sul negoziato il pasticcio tedesco sul bilancio che ha costretto la Corte costituzionale a intervenire: incentivi alla transizione energetica per ben 60 miliardi di euro sono stati collocati nel Fondo per il Clima in modo da violare la regola costituzionale sul freno del debito (la soglia consentita è solo lo 0,35% del Pil). A questo punto il Governo deve rifare i conti e trovare le risorse per coprire il buco. Verrà approvato un bilancio supplementare che di fatto congela per un anno la regola aurea sui conti pubblici. Dunque, Berlino non può più scagliare la prima pietra tanto più mentre continua la recessione (il Pil è sceso nel terzo trimestre dello 0,4% su base annua). Ma lo scivolone può innescare una sorta di corsa a fare ammenda. Così per rimediare al proprio errore, il Governo rischia di provocare uno sbaglio peggiore per il resto della zona euro.
Non sappiamo come finirà, se però vogliamo proprio tirare a indovinare, ci sono molte circostanze interne e internazionali (in primo luogo le guerre in corso in Ucraina e a Gaza) che spingeranno Scholz a placare gli eroici furori non solo di Lindner, ma dei poteri forti che lo sostengono, a cominciare dalla Bundesbank. Dunque, Berlino potrebbe scegliere il male minore e far passare la bozza Gentiloni. Un compromesso che alla fine anche l’Italia può accettare? Approvando o no il Mes? La politica ha delle ragioni che la ragione a volte non conosce. Non resta che aspettare.
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