L’Unione europea, costruita nell’arco di molti decenni, può essere interpretata come un gioco cooperativo a somma molto positiva nel lungo periodo e i cui esiti non avrebbero potuto essere conseguiti in misura paragonabile in sua assenza. Questo carattere non esclude tuttavia che nel breve periodo, in alcuni momenti particolari, le scelte collettive in essa compiute possano produrre effetti negativi per la somma dei Paesi partecipanti o quanto meno per alcuni di essi. E l’Italia, che non ha nessun interesse a sottrarsi  al gioco cooperativo europeo, utile e ineluttabile, deve prestare particolare attenzione a questo rischio in conseguenza di due problemi strutturali che si porta dietro da moltissimo tempo. Essi consistono, da un lato, nell’elevato debito pubblico e, dall’altro, nella scarsa capacità di crescita economica, due problemi ben sintetizzati dall’indicatore costituito dal rapporto debito pubblico/Pil che sarà oggetto di particolare attenzione nell’Ecofin che si tiene oggi.



Di esso e della sostenibilità del debito pubblico abbiamo già parlato in due precedenti puntate, qui pubblicate ieri e l’altro ieri, e continuiamo a farlo nel contributo odierno. Nell’intervento di due giorni fa ho sostenuto, commentando l’audizione del ministro Giorgetti in Parlamento, che non ha molto senso porre rigide regole in sede europea per imporre riduzioni forzate del rapporto debito/Pil agli stati che si trovano con valori elevati del medesimo. E la ragione principale è che tale obiettivo non può essere in alcun modo perseguito in via diretta se non si vuole correre il rischio di ottenere l’esatto contrario.



A conferma di tale convinzione ho portato l’esempio di quanto avvenuto nel periodo 2011-14, nel quale l’Unione europea si affrettò senza ragione a imporre ai Paesi più indebitati percorsi di rientro dall’elevato debito che uccisero sul nascere quel poco di crescita che stava germogliando dopo la grave recessione del 2008-09. Imponendo strette fiscali insostenibili ottenne l’effetto di indurre una seconda recessione, tutta interna ai Paesi martirizzati, la quale fece sì che la caduta recessiva del Pil al denominatore del rapporto debito/Pil fosse assai più consistente del debolissimo miglioramento nella velocità di crescita del numeratore, portando, in particolare nel caso dell’Italia, a un notevole peggioramento del rapporto, più consistente di quello generato dalla precedente recessione mondiale. Così una politica europea che voleva mettere in sicurezza i debiti pubblici più problematici finì in realtà per moltiplicarne la pericolosità. Infatti, come illustrato nel Grafico 1, già proposto ieri ma che conviene richiamare:



– La recessione del 2008-09 aveva interrotto la precedente fase di discesa del rapporto debito/Pil che era iniziata durante il governo tecnico Dini nel 1995 e si era rafforzata con l’adesione alla moneta unica. Per effetto della recessione e di politiche fiscali ovviamente espansive, ma comunque molto prudenti, il rapporto debito/Pil era risalito dal 104% scarso del 2007 al 119% del 2010, praticamente lo stesso livello di quello di metà degli anni ’90.

– Se non si fosse fatto assolutamente nulla il rapporto si sarebbe stabilizzato, cosa che stava già avvenendo nel corso del 2011. Invece la crisi speculativa dello spread, nel cui manifestarsi le istituzioni europee non intervennero a difendere l’Italia ma anzi avvallarono, sino a richiederle direttamente, drastiche politiche fiscali restrittive, fece saltare la fase di spontanea stabilizzazione e le successive misure (non churchilliane viste le conseguenze…) lacrime e sangue del governo Monti portarono a una seconda recessione di portata complessiva simile alla prima ma più durevole e molto più difficile da superare. Essa fece fare al rapporto debito/Pil un secondo balzo verso l’alto ancora più consistente del primo, portandolo al 135%, un valore che non si era mai visto nella storia d’Italia dalla sua unità.

Grafico 1 – Il debito pubblico dell’Italia in rapporto al Pil

Il Grafico precedente va visto congiuntamente con quello del livello del Pil reale del nostro Paese, dato che esso è in grado di mettere in evidenza l’inutile e anzi dannosissima seconda recessione economica dalla quale il nostro Paese non si è in realtà mai ripreso. Infatti:

– la grande recessione mondiale del 2008-09 fece cadere il Pil reale dell’Italia complessivamente del 7,7% in 5 trimestri, tra il secondo del 2008 e il terzo del 2009, tuttavia nei successivi 8 trimestri quasi metà di questa caduta risultava recuperata;

– la recessione del tutto evitabile dovuta alla stretta fiscale Monti-Ue del 2011-13 fece invece nuovamente cadere il Pil reale, in questo caso per un ulteriore 5,4% complessivo in 7 trimestri;

– la fase di caduta fu seguita da altri 8 trimestri di totale stagnazione, per un totale di tre anni completamente perduti nella crescita economica dell’Italia;

– il recupero della caduta Monti, avvenuto in seguito, è stato estremamente lento, tanto che il livello del Pil reale del secondo trimestre 2011 non era stato ancora raggiunto all’inizio del 2020, quando è iniziata la nuova recessione dovuta al Covid, ed è stato superato dall’Italia solo nel quarto trimestre del 2021, nel proseguimento del recupero di questa caduta.

Grafico 2 – Il Pil reale dell’Italia (Indici 2010=100)

Come in una telenovela i cui sceneggiatori non sanno più cosa inventarsi e vanno a riprendersi vecchie idee di molte stagioni fa, ora l’Unione europea sta nuovamente immaginando, immemore dei vecchi errori qui ricordati, di adottare regole rigide e restrittive per obbligare i Paesi “viziosi” dall’alto debito pubblico a ricondurre il medesimo su un sentiero di discesa obbligata in rapporto al Pil. Ma è davvero realizzabile una regola o un insieme di regole di questo tipo? La risposta è un no netto. Non si può. E se si adottano l’effetto sarà ancora una volta di segno contrario, come nel caso qui ampiamente ricordato. La dimostrazione è tutta nell’algebra del rapporto debito/Pil.

Infatti, in base a quali variabili il rapporto debito/Pil si modifica e auspicatamente diminuisce nel tempo? La sua variazione annua è data (risparmio al lettore le formule e i relativi passaggi) dal disavanzo annuo di cassa dei conti pubblici in rapporto al Pil meno il tasso di crescita nominale del Pil moltiplicato per il rapporto debito/Pil antecedente. Pertanto se il disavanzo pubblico è pari a quattro punti di Pil e il Pil nominale cresce del quattro per cento all’anno, il rapporto debito/Pil resterà invariato per i Paesi che partono da un rapporto debito/Pil del 100%, scenderà per i Paesi con rapporto più elevato e aumenterà per i restanti.

Tuttavia, queste due variabili chiave per la stabilizzazione, il disavanzo in rapporto al Pil e la crescita nominale del Pil ,sono scomponibili ognuna in altre due:

– il disavanzo deriva dalla spesa per interessi sul debito pubblico da un lato diminuita per l’avanzo primario dall’altro, se esiste, altrimenti accresciuta per il disavanzo primario;

– la crescita del Pil nominale può essere a sua volta scomposta in crescita del Pil reale e deflatore, dunque in quantità e prezzi;

– la spesa per interessi sul debito a sua volta è data dal costo annuo medio del debito (l’interesse medio pagato) moltiplicato per lo stock del debito.

Pertanto le variabili chiave per la stabilizzazione del debito pubblico sono in definitiva le seguenti quattro:

– il costo medio del debito, che dipende dal livello dei tassi d’interesse in Europa e dallo spread specifico del Paese;

– il saldo primario dei conti pubblici;

– la crescita del Pil reale;

– il deflatore del Pil.

Quante e quali di queste quattro variabili sono sotto il controllo dei Governi? Solo una e solo parzialmente: il saldo primario dei conti pubblici che è la differenza tra le entrate pubbliche, ottenute applicando aliquote impositive decise dai Governi a imponibili fiscali che sono invece decisi dal Pil e certo non dai governi, e la spesa pubblica al netto degli interessi.

E chi controlla allora, o comunque, influisce di più sulle restanti tre variabili? La risposta è molto semplice: la Banca centrale europea. Infatti la Bce:

– attraverso le scelte sui tassi incide fortemente sul costo dei debiti nazionali e sulla variazione di tali costi nel tempo;

– attraverso la politica monetaria, nettamente restrittiva da più di un anno a questa parte, influisce in senso restrittivo sulla dinamica dei prezzi e dunque anche sui deflatori;

– e ovviamente attraverso la politica monetaria restrittiva incide anche sulla crescita reale delle economie dell’Eurozona.

In teoria sulle ultime due variabili potrebbero influire anche i Governi attraverso le politiche fiscali, ma nella realtà essi, quanto meno i più indebitati, sono ingessati dagli obiettivi sui saldi primari concordati di volta in volta in senso restrittivo in sede Ue. Dunque la conclusione è che i Governi nazionali non sono assolutamente in grado di mettere a repentaglio i loro debiti pubblici, quantunque elevati possano essere, sin tanto che rispettano gli obiettivi concordati sui loro saldi primari.

L’unica che può mettere a repentaglio i debiti nazionali è solo la Bce, attraverso politiche monetarie sbagliate. Che sono proprio quelle che sta facendo.

(3- continua)

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