Il rinvio sulla riforma del Patto di stabilità è un pessimo segnale, può darsi che alla fine si arrivi a un compromesso, ma in ogni caso l’incapacità di scegliere dopo discussioni che durano da oltre un anno rappresenta la fotografia di un’Unione di nuovo disunita. Allora il sussulto in risposta alla pandemia con il Next Generation Eu e la reazione di fronte all’invasione russa dell’Ucraina vanno considerate delle eccezioni? Certo, appare sempre più chiara la necessità di rivedere l’intero funzionamento di questo ircocervo che non è uno Stato né tanto meno un Superstato, non è una Federazione e nemmeno una Confederazione.



L’Ue si è divisa non tra falchi e colombe, europeisti e sovranisti, rigorosi e spendaccioni, ma tra illusi e realisti. Passata è la tempesta, pensano gli illusi, quindi occorre tornare alla “normalità” ripristinando con qualche aggiustamento le norme che hanno regolato l’agire economico dell’Ue, soprattutto tra i Paesi che condividono una stessa moneta. I realisti sono convinti che, finita la pandemia, sono scoppiate altre bufere, come la guerra in Ucraina, la crisi del gas, l’inflazione e ora la battaglia di Gaza, con una ricaduta diretta sulla vita economica e politica dell’Unione. L’Italia, con la Francia e la Spagna, è con i realisti. I Paesi del Nord Europa con la Germania sono gli illusi, anche se i conti tedeschi si sono rivelati un pastrocchio, il prodotto lordo più grande d’Europa ristagna e andrà in recessione tecnica, con una ricaduta negativa sull’intera economia continentale. Una contraddizione nella contraddizione.



“Piuttosto che un cattivo accordo meglio nessun accordo”, ha detto Giancarlo Giorgetti. Dello stesso avviso sono anche alcuni europeisti di provata fede anche se di scuola diversa come Giampaolo Galli e Lorenzo Bini Smaghi, già membro del direttivo della Bce, il quale in una intervista alla Stampa ha ribadito che è preferibile tenersi “il vecchio patto piuttosto che delle regole pasticciate e di difficile applicazione”. A decidere, almeno inizialmente, sarebbe la Commissione europea “e per di più la nuova Commissione, che si insedierà solo tra sei mesi”.



La partita non è economica, ma politica e finirà sul tavolo del Consiglio europeo giovedì e venerdì prossimi; se non fosse risolutivo, si cercherà di convocare un altro Ecofin prima di Natale, tra il 18 e il 21. È vero che gli stessi ministri dell’Economia sono figure politiche, l’Ecofin non è un tavolo tecnico, ma a questo punto il Patto di stabilità entra nel mercanteggiamento di fine legislatura. Trascurando così l’importante fattore tempo.

Le elezioni saranno a giugno, Parlamento e Commissione si insedieranno in estate, prima di riprendere le fila del Patto di stabilità passerà altro tempo. Si può davvero restare fermi un altro anno? Che risposta daranno i mercati e che impatto ci sarà sull’euro? I Paesi più esposti, l’Italia innanzitutto, ma anche la Francia, la Spagna e molti altri, quelli stessi che non sono soddisfatti della riforma sul tappeto e sono tentati dal rinvio, rischiano di essere i più danneggiati. Un dilemma difficile da risolvere. Ma vediamo come si sono lasciati i ministri economici e a che punto è arrivata in concreto la trattativa.

Chi è sotto procedura d’infrazione per deficit eccessivo dovrà effettuare un “aggiustamento strutturale” annuo minimo dello 0,5% del deficit sul Pil, ma la Commissione potrà, per un periodo transitorio nel 2025, 2026 e 2027, “tener conto dell’aumento degli interessi pagati nel calcolo dello sforzo di aggiustamento nell’ambito della procedura per disavanzo eccessivo” per non compromettere l’effetto positivo del Pnrr. Anche questa, però, è un’eccezione, anziché diventare regola. L’ultima bozza di accordo consente ai singoli Paesi di prendere in considerazione eventi esterni fuori controllo, fattori temporanei, le spese per il Pnrr, tuttavia messe così appaiono mere scappatoie per non riformare davvero la norma del 3%.

Il parametro di riferimento è il disavanzo strutturale. La Spagna, presidente di turno, ha proposto di aggiungere l’aggettivo primario, escludendo il costo degli interessi sul debito dal calcolo del deficit. L’inflazione ha provocato un aumento dei tassi che non deriva immediatamente dallo spendi e spandi dei Governi, quindi inserirli nel conto rende la misura pro-ciclica, cioè dà una spinta all’economia lungo la discesa verso la recessione. Giorgetti appoggia la proposta spagnola che, naturalmente, aiuta anche l’Italia, vuole però che la flessibilità concessa non sia una sorta di una tantum, ma che il negoziato tra la Commissione e i singoli Paesi tenga sempre conto delle difficoltà incontrate di volta in volta nella gestione dell’economia. Il ministro tedesco Christian Lindner si è opposto.

C’è poi la nuova clausola di salvaguardia del deficit: una volta riportato per tutti almeno al 3% del Pil, dovrà scendere all’1,5% per i Paesi con debito superiore al 90% del Pil, mentre chi ha un debito inferiore potrà mettere in conto un disavanzo del 2%. Per raggiungere l’obiettivo il deficit strutturale al netto della spesa per interessi dovrà essere annualmente dello 0,3% (0,2% per chi aggiusterà il bilancio in 7 anni e non in 4), come ha proposto la Francia. Il debito invece dovrà essere ridotto di un punto percentuale l’anno come voleva la Germania.

Il ministro francese Bruno Le Maire ha insistito che risanare le finanze pubbliche deve andare di pari passo con gli investimenti per la transizione energetica o la difesa comune. Il suo collega tedesco Christian Lindner ha escluso qualsiasi golden rule sugli investimenti. Per lui il negoziato è arrivato al 92%, per Le Maire è al 95%, ma il diavolo come sempre è proprio nei dettagli.

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