Tra le novità dell’anno appena iniziato c’è l’entrata in vigore delle regole riformate del Patto di stabilità. Vista la situazione difficile in cui si trova l’economia dell’Ue c’è da chiedersi se potranno contribuire a dare una svolta positiva alla congiuntura europea. Come evidenzia Massimo D’Antoni, Professore di Scienza delle finanze all’Università di Siena, «nel 2025 tornano i vincoli delle regole fiscali, che comporteranno in tutti i Paesi europei riduzioni significative nella spesa pubblica, con effetti non certo positivi sulla crescita. Servirebbe una diversa impostazione che però, al di là dei propositi e dei proclami, non mi pare di vedere nella politica economica promossa da Bruxelles».
Tuttavia, si parla già di rivedere le regole fiscali, scorporando le spese per la difesa dai parametri per raggiungere l’obiettivo di portarle al 2,5-3% del Pil.
L’Italia sostiene questa proposta di scorporo, cercando in questo caso alleati tra i Paesi appartenenti al gruppo dei “frugali” più sensibili al tema della difesa, come la Finlandia e la Svezia. Mi pongo una domanda a monte di questa scelta: è effettivamente una priorità per l’Italia l’aumento della spesa militare? Il Governo Meloni evidentemente la pensa così. Siccome però non vedo minacce dirette alla sicurezza dell’Italia, credo che le ragioni di questa scelta siano in parte ideologiche e in parte legate a scelte di collocazione internazionale. Meloni e la sua maggioranza vogliono coltivare un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti. Qui vedo uno scostamento dalla linea tradizionale della nostra politica estera, che per lungo tempo ha conciliato la lealtà alla Nato con una posizione dialogante verso i Paesi al di fuori di essa. Sono scelte che possono avere conseguenze estremamente rilevanti per il nostro futuro, ma non mi sembra che nel dibattito pubblico siano molto discusse nei loro risvolti.
Se non passerà la richiesta ci toccherà tagliare altra spesa pubblica per aumentare quella militare?
Ribadisco che non ritengo che l’Italia sia realmente obbligata ad aumentare la spesa militare, nemmeno a fronte dell’ingiunzione di Trump. Se poi si volesse perseguire questo obiettivo, farlo entro i limiti di crescita della spesa consentiti dal Patto di stabilità vorrebbe dire tagliare in modo significativo sanità, istruzione, servizi pubblici… non riesco a immaginare che una cosa del genere si possa fare senza suscitare un malcontento generalizzato. Ma la questione non è solo quella delle regole fiscali, le risorse del bilancio pubblico non sono illimitate, anche con una modifica delle regole fiscali spendere di più in difesa significherebbe avere meno risorse per altre spese.
Dallo storico alleato Usa sembra arrivare anche una “minaccia” per l’Ue, visti gli annunci di Trump relativi ai dazi e alla necessità di acquistare più Gnl americano. Quanto rischia l’Europa su questo fronte?
Trump vuole che l’Europa acquisti beni americani e la richiesta di aumentare la spesa militare, e quindi anche tecnologia made in Usa, rientra in modo ovvio in questo obiettivo. In molte fasi storiche sono stati gli Usa ad assorbire la domanda europea, ma Trump sembra molto deciso a fare dell’Europa un mercato di sbocco privilegiato per i beni americani, oltre che un acquirente di energia. Per noi potrebbe essere un problema serio, tanto più se l’Europa continuerà a seguire un modello neo-mercantilistico orientato all’esportazione e alla depressione della domanda interna. Diventa sempre più urgente fare quello che molti economisti, critici dell’architettura fiscale e monetaria dell’Unione, affermano da anni: mercato unico e moneta unica dovrebbero essere riorientati a fornire uno stimolo a investimenti e consumi interni.
La soluzione potrebbe essere quella di rilanciare la competitività dell’Ue emettendo nuovo debito comune europeo?
Intanto mi lasci dire che questa insistenza sulla competitività con riferimento a un Paese o a un’Unione di Paesi è mal posta e risponde anch’essa all’idea che l’Europa debba guardare principalmente all’export. Come notava già negli anni Novanta l’economista Paul Krugman, competitività è un concetto che può valere per un’impresa, non per un’intera economia. Semmai dovremmo guardare alla produttività, ovvero alla capacità di creare valore a partire dalle risorse di cui il Paese dispone. Da cosa deriva l’aumento di produttività? Principalmente dall’attività di investimento: delle imprese, degli Stati per quel che riguarda le infrastrutture pubbliche materiali e immateriali, e degli individui per quella particolare ma essenziale forma di capitale che chiamiamo capitale umano, ovvero l’acquisizione di competenze e capacità. Per investire in molti casi può servire anche indebitarsi per reperire risorse sui mercati finanziari e se gli stati dell’Ue sono impediti a farlo il debito comune può essere una soluzione, come già sperimentato con il Pnrr. Ma l’aumento di produttività deriva anche, in modo cruciale, dalle prospettive di domanda, cui le imprese fanno fronte investendo per aumentare la capacità produttiva. A questo proposito recentemente sono state rilanciate e molto commentate le parole del Presidente Draghi, che ha puntato il dito contro le politiche di austerità che hanno depresso il potere d’acquisto e quindi i consumi degli europei, comprimendo la domanda interna invece di rilanciarla. Parole che hanno sorpreso, visto che contraddicono la linea perseguita dallo stesso Draghi quando era a capo della Bce, ma forse per questo ancora più significative.
Nelle Linee guida della gestione del debito pubblico del Mef si legge che per il 2025 si prevedono emissioni lorde complessive di titoli a medio lungo termine per 330-350 miliardi di euro (contro i 361 del 2024) e di Bot per 130,5 miliardi (contro i 171 del 2024). Bastano la prudenza fiscale del Governo e il giudizio “non negativo” delle agenzie di rating per essere tranquilli su questi collocamenti, considerando che non ci saranno più i riacquisti di titoli di stato da parte della Bce?
Le emissioni dipendono dalla struttura delle scadenze dei titoli in essere, che devono essere rimborsati emettendo nuovi titoli. L’Italia ha sempre avuto una gestione prudente con scadenze relativamente “lunghe”. I dati che riporta indicano che il 2025 non sarà un anno particolarmente difficile da questo punto di vista, con impegni del tutto in linea con la scadenza media dei titoli di Stato, che è di circa 7 anni. Non vedo dunque in questo motivi di preoccupazione. La Bce può anche ridurre il suo impegno, l’importante è che sia pronta a intervenire in caso di necessità, per l’Italia come per qualunque altro Paese dell’eurozona.
C’è chi vede la situazione della Francia e la sua percezione sui mercati come fonte di un potenziale problema per altri Stati dell’Ue, Italia compresa. Pensa che sarà questo il rischio principale per il nostro Paese nel 2025?
La situazione francese appare più preoccupante della nostra, anche per la diversa e più sfavorevole posizione finanziaria sull’estero dei nostri cugini d’Oltralpe. Nei momenti difficili la Francia è sempre stata in grado di mettere sul piatto il proprio peso politico, sia nella Commissione che nella Bce, ma certo le difficoltà politiche interne non giocano in questo momento a suo favore. Una crisi francese potrebbe propagarsi anche ad altri Paesi. Anche in questo caso sarebbe cruciale un intervento tempestivo e deciso della Bce, che non dovrebbe ripetere gli errori e i tentennamenti della precedenti crisi debitoria.
Parliamo di pressione fiscale in Italia. Non è ben chiaro se quest’anno aumenterà o resterà invariata rispetto al 2024. In ogni caso, cosa occorrerebbe fare per abbassarla?
Diciamo che resterà sostanzialmente invariata in termini complessivi, visto che una riduzione delle imposte dovrebbe essere accompagnata da una pari riduzione della spesa, che per effetto del Patto di stabilità è già è su un sentiero di significativa riduzione in termini reali. Più che abbassare la pressione fiscale, a me parrebbe importante puntare a una diversa distribuzione. Nel tempo si è progressivamente persa la coerenza del disegno originario del sistema fiscale e le recenti riforme non rispondono a una visione organica, ma alla necessità di accontentare questo o quel gruppo di contribuenti. La riduzione della pressione fiscale sul lavoro dipendente, che è forse il provvedimento più rilevante di questo Governo, risponde all’esigenza importante di rilanciare occupazione e consumi, ma purtroppo aggiunge complessità e opacità a un impianto già molto frammentato e incoerente. Non si tratta solo di una questione tecnica, un sistema privo di organicità è inevitabilmente percepito come meno equo dai contribuenti.
(Lorenzo Torrisi)
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