Il governo Meloni aveva promesso una riforma pensioni 2023 entro quest’anno, ma nel mese di aprile, per frenare le aspettative di chi avrebbe chiesto di introdurre la legge strutturale all’interno del documento di economia e finanza (DEF), ma questo proposito era troppo ambizioso già all’occhio più esperto ed infatti, il precedente governo guidato da Mario Draghi ha necessariamente dovuto frenare le aspettative di tutti, rimandando la legge a tempi più rosei. con enorme insoddisfazione dell’ex Ministro del Lavoro Andrea Orlando infatti, la lege sulle pensioni è stata rimandata a data da destinarsi: complice il conflitto in Ucraina e la conseguente crisi dei prezzi delle materie prime che hanno causato l’aumento dell’inflazione.



Riforma pensioni 2023: perché il governo non riesce a intervenire

Adesso però, nonostante le tante rassicurazioni di un governo che pare conoscere esattamente la deadline ministeriale, vedendosi bocciare persino il prospetto dei prezzi della riforma del sistema previdenziale, ha dovuto rimandare tutto a 2024. Infatti la cosiddetta quota 41 universale, cioè senza limiti di età anagrafica, non soltanto è risultata più dispendiosa sul medio termine di quanto ci si aspettasse, ma non avrebbe consentito nemmeno di assicurare una exit anticipata rispetto a quanto previsto dalla Legge Fornero, addirittura peggiorando lo stato dei giovani, ma di tutti coloro che hanno avuto una discontinuità contributiva. Il sistema previdenziale che vivrà la sua prima vera grande crisi dal 2035 con un aumento di de terzi del numero di pensionati rispetto ai lavoratori, non ha attualmente un ascensore previdenziale come Ape sociale che doveva essere reso strutturale secondo i progetti dell’ex Ministro Andrea Orlando.



Riforma pensioni 2023: l’ipotesi della exit a 62 anni

In questo caos di propositi, buone intenzioni e ritorni alla realtà, purtroppo appare molto difficile dotare il sistema previdenziale di una vera riforma pensioni che possa soddisfare molti. E mentre nei giorni scorsi le varie ipotesi si sono rincorse e alternate è stata avanzata in questi giorni la exit a 63 anni che costituiva una via di mezzo rispetto alle precedenti posizioni delle classi sociali e dei sindacati che volevano la exit a 62 o 64 anni.

Adesso però sembra essere tornata in auge una proposta di exit lavorativa 62 anni, ma non come limite anagrafico fisso da raggiungere (come vorrebbero i lavoratori), bensì nella stessa ricetta della misra ponte quota 103.



Se già per il 2023 è stata proposta quota 103 bis, c’è chi vede la riproposizione della stessa misura anche per gli anni a venire fino al 2030, anno in cui entrerà in vigore al 100% il sistema contributivo puro per tutti i lavoratori.
Quello sarà il momento di operare una legge strutturale che possa davvero valere per moltissimi anni, ma pare he prima di quel momento anche il sistema previdenziale debba stringere la cinghia, si fa per dire: perché il prezzo sarà inevitabilmente pagato da tutti i lavoratori italiani ma soprattutto dalle classi più giovani che dovranno necessariamente adottare la strategia dei fondi previdenziali integrativi.
quota 103 infatti prevede la exit dai 62 anni e 41 di contributi, ma l paletto contributivo è il reale ostacolo delle classi lavoratrici giovani o caratterizzate da discontinuità contributiva. Per queste servirà inevitabilmente una misura salvagente resa strutturale come Ape sociale onde evitare davvero di uscire fuori dal mondo del lavoro al’età di 74 anni, come potrebbe accadere a un lavoratore 25 enne, secondo le previsioni dell’Inps.