Come pubblicato da IlSussidiario.net, una riforma pensioni 2023 che possa intendersi come strutturale è sicuramente ambita da moltissime categorie di lavoratori e sindacati, ma il governo ancora non ha la possibilità di capire quali potrebbero essere le fonti da cui attingere le risorse necessarie.

E infatti, se in un primo momento Giorgia Meloni si diceva più predisposta a una quota 41 universale, l’analisi dei costi ha rotto ogni speranza: in 5 anni infatti la riforma sarebbe costata troppo. E allora cosa potrebbe salvare le casse statali e la sussistenza dell’Inps che sarà chiamato ad affrontare una grande spesa già a partire dal 2035? C’è chi ipotizza un ruolo sempre crescente del sistema previdenziale complementare.



Riforma pensioni 2023: le proposte avanzate fino ad oggi

Il governo Meloni sta seriamente contando le risorse necessarie per la riforma pensioni 2023, o per una qualsiasi riforma strutturale del sistema previdenziale. Anche se quasi certamente questa verrà rimandata al 2024, come per altro annunciato dallo stesso Ministro Calderone lo scorso maggio, e proprio a causa della crescita flebile del belpaese, il governo sarà costretto ad adoperare misure non molto onerose: da una parte c’è la quasi certa quota 103 bis, quindi la misura ponte che servirà a traghettare il paese verso la riforma strutturale vera e propria e poi, forse, la quota 41, modificata con qualche accorgimento utile a introdurre un salvagente previdenziale.



Cosa potrebbe dunque salvare l’Inps dalla sicura crisi che interverrà nel sistema previdenziale dal 2035, cioè quando il numero dei lavoratori sarà certamente inferiore rispetto a quello dei pensionati? Stiamo parlando infatti di un anno in cui le spese pubbliche per la previdenza cominceranno a pesare davvero in rapporto al PIL e rischieranno di toccare il picco massimo entro il 2050.

Al necessario contenimento di questa voce di spesa, rimarcato anche da Bruxelles che, per l’occasione, ha ricordato all’Italia di dover ridurre le spese relative alla previdenza, si associa anche il desiderio da parte delle categorie, delle classi di lavoratori e dei rappresentanti sindacali, di avere una legge strutturale che sia in grado di dare regole certe sull’accesso alla pensione anche per gli anni futuri. Non è semplice. In questi anni si  fatta strada nell’indice di gradimento delle varie proposte, quella di Pasquale Tridico attuale Presidente dell’INPS, che è l’unica in grado di assicurare ai lavoratori e ai conti pubblici una soddisfazione reciproca perché, se da un lato il lavoratore pagherà la exit pensionistica attraverso un assegno mensile ridotto fino al raggiungimento dei 67 anni, dall’altro potrà percepirlo completo una volta raggiunto questo traguardo anagrafico che rappresenta lo spartiacque anagrafico previdenziale, anche per quanto concerne la Legge Fornero.



Si tratta di un’innovativa proposta che è in grado dunque di correggere e affiancare la riforma Fornero che, attualmente, è difficilmente superabile e, anzi, ogni suo superamento rischia di catapultare il lavoratore in una spirale dove sarà quasi impossibile (per alcune categorie caratterizzate da discontinuità contributiva) raggiungere il paletto dei 41 anni di contributi.

Riforma pensioni 2023: il sistema di previdenza complementare salverà l’INPS?

Parimenti, sempre la proposta Tridico, potrà evitare al lavoratore la penalizzazione che pesa anche per il 30% dell’assegno mensile, così come è avvenuto per coloro che hanno usufruito di Opzione Donna e Quota 100.

Orbene, cosa potrebbe dunque garantire al sistema previdenziale la possibilità di operare una riforma includendo un cuscinetto previdenziale sia per il lavoratore sia per le casse pubbliche di previdenza? Certamente la garanzia che ogni lavoratore si sia deciso ad investire nella previdenza complementare, ma questa non potrà essere resa obbligatoria, ma è necessariamente una scelta privata del contribuente.