L’incontro di oggi sulle pensioni tra il Governo e i sindacati si svolgerà – speriamo – sulla base dello scenario tracciato dal ministro Giancarlo Giorgetti nel suo intervento al Meeting di Rimini: ‘’Non c’è nessuna riforma previdenziale che tiene nel medio-lungo periodo con i numeri della natalità che vediamo in questo Paese”. Il titolare del Mef, in questo modo, ha individuato l’inoppugnabile criticità che rende insostenibile il sistema pensionistico, al di là di tutte le considerazioni che ci portiamo appresso da decenni.
Questione di numeri
Il declino demografico è una delle grandi emergenze del Paese e scarica i suoi effetti sia sul sistema pensionistico che sul mercato del lavoro. Quindi non è solo un problema di finanze pubbliche o di mismatcht tra domanda e offerta di lavoro. È divenuta una questione di numeri; di teste riguardanti da un lato i pensionati, dall’altro i contribuenti. I primi per alcuni decenni sono destinati ad aumentare ancora; i secondi sono in progressiva diminuzione, per il fatto banale che, per decenni, non sono nati in numero adeguato. In Italia si è passati dal picco storico di 1,1 milioni di nuovi nati del 1964 ai 393mila nel 2022, circa il 2% in meno dell’anno precedente, in cui si era già registrato il record negativo dall’unità d’Italia.
Ovviamente questi processi non sono determinati da un crollo improvviso, ma da una lunga emorragia che si è aggravata anno dopo anno, per effetto di un declino progressivo: quando le coorti (al netto di altri fattori culturali, economici e sociali) si riducono progressivamente di numero, innestano una filiera che produrrà un ulteriore declino in quelle successive. La presenza di un numero decrescente di padri e di madri (in età feconda) ha portato con sé l’inevitabile conseguenza della riduzione del numero dei figli in una sequenza che viene trascinata al ribasso man mano che si succedono le generazioni.
Non ci voleva molto a capire che l’Italia era incamminata sulla via del declino. In sostanza le coorti del baby boom (numerose alla nascita) hanno potuto avvalersi di norme che (sia pure con modifiche) favorivano il pensionamento anticipato senza penalizzazioni, con trend demografici favorevoli, lunghi periodi di occupazione precoce, stabile e continuativa, l’allungamento dell’attesa di vita in ragione di un anno ogni dieci. E qui sta l’ingorgo che i sindacati si rifiutano di vedere: nei prossimi anni aumenterà il numero dei pensionati classificabili come anziani/giovani mentre diminuirà – per semplici motivi di ordine naturale – quello dei contribuenti in un sistema di finanziamento a ripartizione. E se anche funzionassero gli interventi economici a favore della natalità (ma gli aspetti economici non sono quelli prevalenti nella tendenza alla denatalità) ci vorranno decenni per recuperare ciò che si è perduto nel corso di altrettanti decenni.
Misure spot
Il governo ha in mente, per le pensioni, qualche misura spot e non è neppure arrivato alla convinzione di mettere le carte in tavola oggi, perché anche in una politica di misure tappabuco non è possibile fare tutto. Prima ancora di accontentare i sindacati Giorgia Meloni deve fare concessioni alla sua maggioranza: a garanzia della Lega dovrà infilare il requisito 41 anni di contribuzione da qualche parte, magari prorogando quota 103. Del resto, in via Bellerio non si sono accorti che i lavoratori hanno trovato più conveniente andare in quiescenza facendo valere il requisito ordinario del trattamento anticipato (42 anni e 10 mesi per gli uomini e un anno in meno per le donne) perché svincolato da un requisito anagrafico e quindi raggiungibile, per i baby boomers, ad un’età inferiore a quella indicata nelle quote.
Forza Italia si sta rifacendo alla mania di Silvio Berlusconi di aumentare le pensioni minime a mille euro mensili, mentre il Governo, di suo, vorrebbe aggiustare opzione donna e aggiungere qualche mansione disagiata in più per poter fare ricorso all’Ape sociale. Le scarse disponibilità finanziarie saranno suddivise tra queste misure-bandiera. Come saranno finanziate? In prevalenza con un giroconto all’interno del sistema, ovvero con una più sostenuta manipolazione della rivalutazione automatica sulle pensioni più elevate, una misura che è in grado di portare risorse significative da subito (soprattutto a fronte di un tasso di inflazione di un certo rilievo) e che risulterebbe popolare. Basterebbe creare per l’ennesima volta il clima della caccia ai pensionati ‘’ricchi’’, nei confronti dei quali l’invidia sociale ha raggiunto punte di odio razziale.
Occhio al 2026
Nessuno si è posto il solo vero problema strutturale derivante dal dl 4/2019: che fare quando alle fine del 2026 verranno meno sia il blocco dei requisiti del pensionamento anticipato sia quello, conseguente, dell’aggancio automatico dei requisiti di età e anzianità all’incremento dell’attesa di vita? Nel Rapporto n.24 sulla spesa pensionistica e sanitaria, la Ragioneria generale dello Stato ha calcolato quali maggiori oneri graverebbero sul sistema pensionistico nel caso in cui le ultime misure vigenti nel 2023 perdessero la caratteristica di transitorietà e fossero invece introdotte in modo permanente. Ciò, in linea con un esercizio simile messo a punto nell’ambito del processo di peer review del sistema pensionistico italiano effettuato, in ambito europeo, dalla Commissione europea e dal Working Group on Ageing.
Ecco lo scenario preso in considerazione: il mantenimento fino al 2070 del canale anticipato con requisiti congiunti di 62 anni di età e 41 di anzianità con adeguamento della speranza di vita del requisito di età; l’abolizione permanente dell’adeguamento alla speranza di vita del requisito di anzianità contributiva per il canale di pensionamento indipendente dall’età anagrafica che, pertanto, rimane fissato a 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne con posticipo della decorrenza di tre mesi; l’introduzione strutturale di un canale di accesso al pensionamento anticipato con almeno 41 anni di anzianità contributiva e almeno 62 anni di età (incrementata ogni biennio in funzione della variazione della speranza di vita).
Tutto ciò produrrebbe un aumento significativo del rapporto spesa pensionistica/Pil: nel primo ventennio del periodo di previsione l’incidenza della spesa in rapporto al Pil aumenterebbe, in media, di 0,3 punti percentuali. Il picco dell’incidenza della spesa pensionistica rispetto al Pil, a parte lo shock del 2020 dovuto alla crisi pandemica, verrebbe raggiunto nel 2040, due anni prima rispetto al valore di massimo previsto a legislazione vigente e con un valore del 17,3%.
Futuro insostenibile
Dal 2045, quando l’effetto di contenimento degli importi legati all’anticipo del pensionamento implicato dalla nuova normativa contribuisce a contrastare l’effetto del maggior numero di pensioni, la spesa in rapporto al Pil tenderebbe rapidamente a convergere sul livello dello scenario nazionale base. Il riallineamento sarebbe favorito anche dalla possibilità, già prevista a normativa vigente, di anticipare di 3 anni la pensione di vecchiaia se l’importo della stessa supera 2,8 volte l’assegno sociale. Cumulativamente, nell’intero periodo di previsione, l’introduzione in via permanente della possibilità di pensionamento anticipato con il requisito congiunto di almeno 62 anni di età e 41 anni di anzianità contributiva, pur ipotizzando l’adeguamento del requisito anagrafico agli incrementi della speranza di vita, produrrebbe una maggiore incidenza della spesa in rapporto al Pil valutabile in 8,4 punti percentuali rispetto ai risultati a legislazione vigente.
L’abolizione permanente dell’adeguamento del requisito per il solo canale di anzianità alla speranza di vita avrebbe effetti simili rispetto al mantenimento permanente dei requisiti di Quota 103. La spesa in rapporto al Pil inizierebbe ad aumentare dopo il 2027 in modo graduale e dal 2034 si manterrebbe più elevata di circa tre decimi di punto fino al 2043. In seguito, lo scarto con la legislazione vigente si ridurrebbe sino ad attestarsi su un livello di circa un decimo di punto a partire dal 2053 fino alla fine del periodo di previsione. Il punto di picco del rapporto verrebbe raggiunto nel 2040 risultando pari al 17,3% come per l’effetto già visto dell’anticipo per Quota 103. Cumulativamente, nell’intero periodo di previsione, il blocco del requisito di anzianità contributiva al livello del 2019 e l’abolizione permanente degli adeguamenti biennali per tenere conto delle variazioni dell’aspettativa di vita produrrebbe una maggiore incidenza della spesa in rapporto al Pil valutabile in 7,5 punti percentuali rispetto ai risultati della legislazione vigente.
È di tutta evidenza, quindi, che entrambi gli interventi, singolarmente e/o cumulativamente considerati, peggiorerebbero in maniera sostanziale l’equilibrio finanziario del sistema pensionistico e la sostenibilità delle finanze pubbliche e del debito pubblico, in particolare nel periodo temporale (per i prossimi 20-25 anni) in cui già molto significativi risultano a normativa vigente gli effetti della transizione demografica negativa.
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