Se c’è un aspetto della politica del Governo che viene apprezzato dalle istituzioni e dai mercati internazionali è la coerenza… dell’incoerenza; ovvero l’Esecutivo e la maggioranza di destra continuano a perseguire con coerenza l’incoerenza nell’applicazione dei programmi elettorali. In sostanza, l’Italia non ha ancora portato i libri in tribunale nonostante la montagna di debito pubblico e un deficit di bilancio quasi doppio del previsto soltanto per un motivo: quello di girare al largo delle promesse fatte in campagna elettorale e di agire nelle politiche di bilancio in continuità col precedente Governo. È questa incoerenza che Pierpaolo Bombardieri dovrebbe apprezzare, contrariamente a quanto ha fatto in una recente intervista nella quale lamenta una situazione seria dei conti pubblici, senza rendersi conto che se il Governo seguisse le proposte dei sindacati in materia di riforma pensioni, le cose andrebbero peggio.



Certo per Meloni è sempre più faticoso tenere la barra diritta da quando Matteo Salvini si è messo in proprio non solo sul piano della politica internazionale, ma anche su quello della politica economica; in particolare facendo balenare di tanto in tanto, nel dibattito politico, quella “Madonna pellegrina” che va sotto il nome di “Quota 41”. Per non fare confusione con l’orgia di “quote” che ci hanno accompagnato negli ultimi anni, Quota 41 significa la possibilità di andare in quiescenza a qualunque età una volta che sia stata maturata un’anzianità di servizio appunto di 41 anni, ed è una proposta sbagliata per diversi motivi:



1) le regole del pensionamento non sono un’offerta al massimo ribasso.

2) attualmente fino a tutto il 2024 è possibile andare in pensione anticipata a prescindere dall’età facendo valere 42 anni e 10 mesi se uomini e un anno in meno se donne; ciò in conseguenza del blocco di questi requisiti previsti dal decreto n.4 del 2019 (con il quale il Governo giallo-verde attentò alla stabilità del sistema pensionistico), blocco che viene meno dall’ 1 gennaio 2025 quando ripartirà, in base all’ultima legge di bilancio, l’adeguamento automatico agli incrementi dell’attesa di vita. Non ci vuole molto a capire che non è la stessa cosa, per quanto riguarda i costi, avere una norma che adegua i requisiti tenuti congelati per anni rispetto a una che li riduce ulteriormente proprio quando escono dal mercato del lavoro coorti che erano già in grado di avvalersi- per tanti comprensibili motivi – dei requisiti più elevato ad un’età media alla decorrenza inferiore a 62 anni.



3) un ulteriore motivo ancor più banale è il seguente: già adesso, per i c.d. precoci, è possibile andare in quiescenza con 41 anni di versamenti a fronte di esigenze occupazionali, personali e familiari con il riconoscimento di un’ampia gamma di causalità.

4) infine, se è sbagliato prevedere un requisito generale di 41 anni per le coorti che vanno in pensione adesso e nei prossimi anni (e che saranno così in grado di farlo a un’età anagrafica ancora più bassa di quella media vigente), lo è ancor di più per le nuove generazioni, per le quali, per le ragioni opposte a quelle di quanti in questi anni sono stati in grado di maturare lunghe anzianità a un’età da anziani/giovani, i 41 anni di anzianità lavorativa saranno un “frutto proibito”, conseguibile a un’età più avanzata di quella che ragionevolmente potrebbe essere stabilita direttamente, tenendo conto degli andamenti demografici. Per essere ancora più espliciti, mentre le generazioni del baby boom hanno cominciato a lavorare abbastanza presto e a un’età intorno ai 60 anni o più bassa sono in grado di avvalersi del pensionamento di anzianità, le nuove generazioni, entrate tardi nel mercato del lavoro spesso con rapporti precari e interrotti, raggiungeranno i 41 anni necessari a un’età più avanzata. Ecco perché è più conveniente per loro fissare, magari in modo flessibile, un’età anagrafica adeguata all’attesa di vita (che col calcolo contributivo consente l’applicazione di un coefficiente più elevato e quindi un maggiore importo dell’assegno) e un requisito contributivo minimo più basso. Poiché fioriscono proposte preferenziali sulle pensioni, ci permettiamo di aggiungerne una nostra che parte da una considerazione di fondo: meno si fa meglio è. È tempo dell’usato sicuro.

Ai soggetti regolati interamente dal  regime contributivo si applicano le seguenti regole: si accumula un montante virtuale (perché il finanziamento del sistema continua a essere di ripartizione e cioè sono le generazioni in attività  che versano dai loro redditi le risorse necessarie a pagare le pensioni in essere) che, rivalutato in base al Pil, viene moltiplicato per un coefficiente di trasformazione in base all’età del pensionamento, per cui restare più a lungo in attività farà scattare  un moltiplicatore più elevato. Tanto che il prolungamento dell’attività lavorativa diventerà il più sicuro garante dell’adeguatezza del trattamento.

Nel sistema contributivo i requisiti per il pensionamento non sono soltanto i “fondamentali” dell’età anagrafica e dell’anzianità contributiva: si aggiunge anche la condizione che, maturati i requisiti previsti, il montante accreditato sia tale da consentire un determinato livello di pensione. Per coloro a cui si applica il sistema contributivo, dunque, oltre a 67 anni di età e almeno 20 anni di anzianità contributiva è previsto anche un c.d. importo “soglia” pari ad almeno una volta l’assegno sociale (534,41 euro nel 2024 a 67 anni, mentre a 71 anni è sufficiente soltanto il requisito contributivo di cinque anni effettivi). È poi prevista una possibilità di anticipo con 20 di contribuzione a 64 anni di età a condizione che l’importo “soglia” della pensione sia pari o superiore a tre volte quello dell’assegno sociale (nel 2024, 1.604 euro).

Ritocchi al ribasso sono previsti per le donne con figli e a meno di non appartenere a qualifiche elevate sarà arduo realizzare questo importo-soglia (di cui dobbiamo prefigurare l’evoluzione negli anni) con solo 20 anni di contributi. È su questo passaggio che si può lavorare, con modifiche che rendano più flessibile il sistema nell’ambito di una nuova scalettatura (64>72 anni) che corrispondono aggiornati  agli otto anni ( 57>65) previsti dalla riforma Dini del 1995. Ovviamente in questo caso viene necessariamente meno l’esigenza di un livello di adeguatezza che viene affidato solo ai coefficienti di trasformazione ragguagliati all’età della quiescenza.

In questo sistema riformato verrebbe a mancare il pensionamento anticipato; sarebbe riconosciuta una pensione di base con cinque anni di contribuzione effettiva che potrebbe svolgere anche una funzione di garanzia; nel regime precedente chi aveva un’anzianità contributiva inferiore a 20 anni diventava un “silente” e aspettava i 71 anni per percepire l’assegno sociale.

Poi la pensione non va considerata solo per il suo importo al momento della liquidazione, ma per il tempo in cui viene percepita. Qui vengono in ballo i dati della demografia e dell’aspettativa di vita che quando sarà operante il solo sistema contributivo si saranno molto allungati.

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