Le recenti dichiarazioni al Festival dell’Economia di Trento di Elsa Fornero, ex ministra del Lavoro e “madre” della riforma delle pensioni che porta il suo nome, sull’insostenibilità di “Quota 41” sono state una risposta a quelle del Sottosegretario Durigon, che una decina di giorni prima aveva affermato l’intenzione del Governo di approvare, forse già nella prossima Legge di bilancio, una norma che consenta il pensionamento anticipato con 41 anni di contributi indipendentemente dall’età. A differenza del passato, però, questa norma andrebbe approvata non con il sistema misto, ma con il calcolo del futuro assegno effettuato interamente con il sistema contributivo. In pratica, dal prossimo anno potrebbe essere approvato un provvedimento analogo all’attuale Quota 103 (41 di contributi + 62 anni di età e calcolo tutto contributivo), privo però del vincolo dell’età anagrafica.
La Fornero difende invece la sua riforma pensioni e, forte della sua vasta esperienza in campo economico, afferma in maniera categorica che è sbagliato pensare di risolvere i complessi problemi della previdenza con il pensionamento anticipato, che il sistema pensionistico è una casa comune dove convivono anziani, giovani, bambini e che quando si fanno promesse bisogna sempre pensare che con questo nostro sistema a ripartizione saranno i giovani a pagarle, concludendo che le pensioni non dipendono dalle promesse, ma dal lavoro delle persone, dalla qualità dell’occupazione e dalla retribuzione.
Essenzialmente è una questione relativa ai conti pubblici, in quanto secondo calcoli effettuati dalla Ragioneria Generale dello Stato tale provvedimento risulterebbe molto costoso nell’ordine dei quattro/cinque miliardi annui e chiaramente l’Europa, con un’Italia ormai certa della procedura d’infrazione, non sarebbe favorevole. Tuttavia, la partita che si giocherà l’8 e il 9 giugno potrebbe cambiare radicalmente l’assetto politico dell’Ue e mutando la governance attuare delle politiche meno restrittive nei confronti del nostro Paese concedendole maggiore elasticità sul rientro del debito.
Personalmente sono sempre stato convinto, e anche le piattaforme sindacali vanno in questa direzione, che versare 41 anni di contributi effettivi possa essere sufficiente per ottenere l’assegno di pensionamento, anche perché con la situazione attuale, con i giovani che cominciano molto tardi a entrare nel mondo del lavoro e spesso con carriere frammentate e discontinue, riuscire ad avere 41 anni di contributi si rivela quasi un exploit. Teniamo solo presente che quarant’anni fa moltissimi cominciavano a lavorare ben prima di compiere vent’anni, ora, invece, per fortuna, quasi tutti intraprendono un corso di studi universitario che sposta necessariamente l’inizio dei versamenti contributivi a ridosso dei 27/28 anni. Oltretutto con il fatto che siamo ormai a oltre due terzi di versamenti con il sistema contributivo e meno di un terzo con quello retributivo, i costi per l’Erario vanno sempre diminuendo, per cui ritengo fattibile il mantenimento del sistema misto fino alla sua naturale conclusione.
Quello che è il vero problema attualmente è il mix di alcuni elementi imprescindibili e che appesantiscono un sistema delle pensioni che non è al collasso come si vorrebbe far credere. Il primo elemento da analizzare è la continua denatalità che attanaglia il nostro Paese, dove molto difficilmente si riuscirà a invertire la rotta. Non è solamente una questione economica e di mancanza di servizi e norme a favore delle giovani coppie, che pure vanno notevolmente implementati, ma è anche una questione sociale dove non sempre per vari rispettabilissimi motivi non tutti sono disposti a voler mettere al mondo dei figli, fenomeno ancor più evidenziato soprattutto nelle società occidentali con economie forti. Altro aspetto da considerare è l’aumento costante dell’aspettativa di vita che, se da un lato ovviamente è un’ottima notizia, dall’altro aumenta i costi per l’Erario perché allunga la durata della corresponsione degli assegni previdenziali. In questo nostro sistema a ripartizione questi fattori fanno sì che il costo delle pensioni aumenti sensibilmente nei prossimi anni anche a causa dei prossimi cospicui pensionamenti dei cosiddetti boomer, i figli del boom economico degli anni ’60, dove nascevano il triplo dei bambini rispetto a ora.
Quello che a mio parere andrebbe invece attuato, in una riforma delle pensioni, è consentire un’amplissima flessibilità in uscita che possa partire dai 62 e per alcune tipologie di mestieri possa arrivare ai 70 anni di età. Mettere, cioè, il lavoratore al centro delle proprie scelte previdenziali accettando un leggero taglio nel caso volesse uscire prima del pensionamento ordinario e ottenere invece un beneficio economico e previdenziale nel caso opposto di permanenza oltre l’età prevista. Ritengo che questa possa essere la strada per superare la rigidità imposta dalla riforma pensioni della Fornero, oltre a ridiscutere tutto il pacchetto che riguarda la previdenza complementare che con l’attuale sistema a ripartizione ormai in crisi potrebbe diventare una risorsa importante da perseguire soprattutto nei confronti delle giovani generazioni aumentando le detrazioni, applicando minori tassazioni e ponendo tutto l’impianto sotto il controllo di un organismo pubblico.
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