RIFORMA PENSIONI. La storia del sistema pensionistico italiano è costellata di provvedimenti approvati con il pretesto dichiarato di migliorarne l’equità (intesa come equivalenza dei trattamenti pensionistici per tutti i lavoratori in relazione ai contributi versati) e la sostenibilità (il rapporto tra le entrate dei contributi previdenziali e le prestazioni pensionistiche erogate valutato sul medio e lungo periodo), ma che nella realtà hanno contribuito a incrementare la spesa pensionistica ottenendo il risultato opposto.
Due sono i vizi di origine. Il primo deriva dalla natura corporativa dei fondi previdenziali (oltre 40) che ha favorito l’introduzione di rendite pensionistiche, e non di rado autentici privilegi, che si sono dimostrati insostenibili nel tempo, ma che nei primi 40 anni del dopoguerra hanno giustificato le rivendicazioni avanzate da altre categorie per migliorare i trattamenti previsti.
Il secondo è relazionato alla continua iniezione di spesa pubblica per sostenere queste prestazioni e ripianare i deficit dei fondi previdenziali, per assicurare i trattamenti minimi a prescindere dai contributi previdenziali versati, per finanziare la crescita delle pensioni di invalidità e degli assegni sociali, per favorire i pensionamenti anticipati nel corso delle ristrutturazioni dei settori e delle aziende.
Un andamento reso possibile dalle dinamiche demografiche espansive fino agli anni ’90 e da una crescita del numero degli occupati/contribuenti superiore a quella dei pensionati.
L’obiettivo di aumentare l’equità dei trattamenti poteva essere già risolto se il metodo contributivo per calcolare le rendite pensionistiche sulla base dei contributi effettivamente versati, introdotto con la riforma Dini nel 1995, fosse stato generalizzato pro quota per tutti i lavoratori. Il mantenimento del sistema di calcolo sulle ultime retribuzioni per la stragrande maggioranza degli occupati già iscritti ai Fondi alla data della riforma ha comportato di fatto anche la salvaguardia per questi lavoratori delle pensioni di anzianità anticipate, in alternativa alla età flessibile di pensionamento (all’epoca tra i 62 e i 67 anni).
Negli anni successivi le pensioni di anzianità sono diventate l’oggetto principale di furibonde battaglie politiche, di riforme e controriforme finalizzate a contenere l’incremento dell’età pensionabile (che nonostante la riforma Fornero del 2011 rimane ancora mediamente inferiore di 4 anni rispetto ai 67 ufficialmente previsti per quella di vecchiaia) sino ad arrivare all’assurdo ripristino del pensionamento con 38 anni di contribuzione (Quota 100). Con esiti che hanno provocato un ulteriore ampliamento delle disuguaglianze interne al sistema previdenziale, in termini di età di pensionamento, durata attesa dei trattamenti e criteri di calcolo delle rendite, tra le vecchie e le nuove generazioni.
Ma la riduzione delle prestazioni per i lavoratori assoggettati al metodo contributivo non assicura affatto la sostenibilità del sistema previdenziale italiano. Le proiezioni statistiche effettuate dalla Ragioneria dello Stato sui dati Istat/Inps stimano un aumento di circa 1,5 milioni del numero dei pensionati nei prossimi 20 anni, derivante dall’incremento del numero medio dei pensionamenti annuali per la fuoriuscita dal mercato del lavoro delle generazioni del baby boom italiano e la contemporanea riduzione di 6 milioni di persone in età di lavoro per le conseguenze della costante decrescita della natalità in atto nel corso degli ultimi trent’anni. Anche ripristinando l’adeguamento dell’età pensionabile alle aspettative di vita, il numero dei pensionati a carico di ogni 100 persone che lavorano è destinato ad aumentare dall’attuale 63,1 al 73,1. Con un numero degli assegni pensionistici, tenendo conto dei titolari di due trattamenti di pensione comprese quelle di reversibilità, destinato a rimanere superiore a quello delle persone occupate.
Le leve normative a disposizione per migliorare la sostenibilità del sistema sono essenzialmente tre: rallentare la crescita del numero dei pensionati; aumentare le aliquote di prelievo sui salari e sui redditi dei lavoratori autonomi; contenere la rivalutazione delle rendite pensionistiche rispetto all’andamento dell’inflazione.
Dato che l’aumento dei prelievi contributivi e del costo del lavoro rischia di compromettere l’andamento dell’occupazione e che la parziale rivalutazione delle pensioni rispetto al costo della vita è già in vigore, l’unica leva normativa a disposizione rimane di fatto quella di ridurre il numero dei pensionamenti anticipati.
Per questi motivi la via maestra per rendere sostenibile il sistema previdenziale, e l’intera spesa per il Welfare collegata all’invecchiamento della popolazione, rimane quella di fare leva sulle variabili economiche, con l’aumento del tasso di occupazione, della produttività e dei salari , per far crescere il volume delle entrate dei fondi previdenziali.
In via teorica questi obiettivi sono possibili, a condizione di portare il tasso di occupazione sulla media dei Paesi della Ue (circa 2,5 milioni di posti di lavoro in più rispetto a quelli tendenziali previsti dalla Ragioneria dello Stato). Un divario che sul versante della domanda di lavoro può essere riempito nei settori che risultano attualmente sottodimensionati, a parità di popolazione, rispetto alle medie europee (sanità, assistenza, servizi alle persone e alle imprese, istruzione e comunicazione). Sul versante dell’offerta diventa necessario riassorbire una quota significativa delle persone in cerca di lavoro e delle persone inattive che si dichiarano disponibili a lavorare (nell’insieme circa 5,5 milioni secondo le indagini dell’istat). Un impegno improbo date le caratteristiche di bassa occupabilità della maggior parte di queste persone che richiederebbe un concorso di politiche attive del lavoro che non ha precedenti. Un’altra via sarebbe quella, già praticata da molti Paesi europei, di mettere in campo politiche per l’invecchiamento attivo delle persone con impieghi appropriati, forme di part-time integrate con una parte di pensione, e premiali per coloro che rinunciano al pensionamento anticipato.
Ma, al di là delle dichiarazioni di rito, le energie degli attori politici e delle rappresentanze sociali continuano a essere concentrate sull’aumento della spesa previdenziale e assistenziale per rispondere alle criticità del mercato del lavoro. Tanto per cambiare, all’ordine del giorno ci sono: come prolungare nel tempo quota la Quota 102 proposta per un solo anno nella Legge di bilancio, estendere i prepensionamenti con gli accordi aziendali, definiti impropriamente con il titolo di “contratti di espansione” (della spesa previdenziale) nelle aziende con almeno 50 dipendenti, istituire un fondo per sostenere i pensionamenti anticipati anche nelle piccole imprese, potenziare l’Ape social per accompagnare alla pensione i lavoratori anziani che perdono il lavoro nei 3 anni precedenti alla maturazione del diritto, ampliare la platea delle professioni considerate usuranti per il pensionamento anticipato, confermare l’Opzione donna, introdurre il minimo garantito per le pensioni calcolate con il metodo contributivo a prescindere dai contributi versati.
Le leve normative per assicurare la sostenibilità sono pressoché esaurite, quelle economiche non vengono nemmeno prese in considerazione. Nel frattempo il sistema previdenziale e la spesa pubblica dovranno farsi carico: dei crescenti deficit dei fondi previdenziali gestiti dall’Inps (praticamente tutti a esclusione di quelli dei dipendenti privati e dei parasubordinati); di assorbire nell’istituto nazionale di previdenza i fondi autonomi che non hanno sostenibilità (ultimo della serie quello dei giornalisti); di coprire i contributi previdenziali in sostituzione delle imprese per incentivare le nuove assunzioni (circa 40 miliardi negli ultimi 5 anni).
Niente equità, e nessuna sostenibilità del sistema previdenziale ma solo una strisciante fiscalizzazione degli oneri da mettere a carico dello Stato. Fino a quando sarà possibile?
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