Il Recovery plan italiano è appena stato presentato ufficialmente in Europa. La discussione parlamentare non ha dato il via a scossoni o turbolenze. È evidente che le forze che appoggiano il Governo avevano già espresso le loro indicazioni e anche Fratelli d’Italia, unico partito di opposizione, ha poi deciso per un’astensione.
Quelle inserite nel Pnrr sono per larga parte decisioni che nessuno si sente di mettere in discussione, tanto o più che molte delle indicazioni più urgenti hanno fatto parte dei programmi che stavano alla base degli ultimi governi, anche se avevano maggioranze politiche diverse. La differenziazione fra le forze politiche è rimasta confinata su sottolineature di parti del programma perché ritenute più identitarie. E così la destra di governo ha strizzato l’occhio verso le riaperture, anche senza verifiche sanitarie, e però è anti-mercato se la concorrenza arriva a cercare di modernizzare il settore della gestione delle spiagge. La parte a sinistra ha insistito di più sulle proposte per il rilancio dell’occupazione di giovani e donne senza però marcare una scelta per il lavoro forte di proposte di innovazione. Addirittura il primo maggio ha messo da parte il tema del lavoro ed è diventato centrale quello della discutibile legge Zan. Ciò grazie all’azione di un cantante e nel silenzio di chi avrebbe almeno dovuto proporsi di saldare assieme diritti civili e diritti sociali visto che l’occasione era la festa del lavoro.
Il dibattito sulle riforme che ci aspettano nei prossimi mesi stenta però a decollare. Forse i capitoli del piano indicano obiettivi troppo generali e non scendono nelle proposte attuative. Spesso indicano certo passaggi e impegni che possono essere valutati in modo diverso se si dovesse già oggi definire il come si intende dare attuazione. In questo modo le tante corporazioni e consorterie nazionali restano ancora silenti in attesa di capire se riusciranno a mantenere i soliti privilegi di parte.
Non dovrebbe però essere questo l’atteggiamento di chi ha sempre sostenuto di essere portatore di un interesse generale del Paese anche nel difendere gli interessi dei propri associati. Per questo è suonata un po’ stonata la scelta dei sindacati che, dopo un periodo di appelli generici e di richiami solo formali per avere accesso a tavoli informativi, hanno avanzato una piattaforma sulla riforma delle pensioni prima di puntare a un patto generale per il lavoro e lo sviluppo.
La piattaforma unitaria parte da un dato di fatto. Entro fine anno bisogna decidere cosa fare di quota 100. La misura è costata tanto, potrebbe pesare troppo qualora proseguisse e non ha sortito i benefici attesi in termini di assunzioni di giovani. Per superare lo stallo attuale le proposte avanzate vanno nel senso di ridefinire i termini di uscita dal lavoro per anzianità. Si propone cioè di disegnare nuove flessibilità per favorire l’uscita a partire dai 62 anni. Il possibile equilibrio economico sarebbe assicurato dal minor valore delle pensioni perché scatta il calcolo solo contributivo.
Altri scivoli ad hoc sono indicati con il proseguimento di “Opzione donna”, con gli interventi per le categorie più fragili e con scivoli di uscita anticipata di 5 o 7 anni per affrontare la crisi occupazionale post-pandemia.
Assieme a queste proposte vengono avanzate anche indicazioni che riprendono un po’ tutte le piattaforme previdenziali di questi anni. Si propone di separare spese assistenziali da quelle previdenziali, si introducono misure di tutela delle pensioni migliori delle esistenti e si pone attenzione anche a misure per i dipendenti pubblici per i recuperi contributivi.
Durante l’anno e mezzo di pandemia la discussione sul lavoro ha visto crescere l’attenzione sui nuovi dualismi del mercato che la crisi sanitaria ha accentuato e accelerato. Tutti i commentatori così come i lavori di analisi hanno messo in rilievo che a pagare un prezzo più alto sono stati i lavoratori che avevano contratti di lavoro con meno tutele. Contratti a termine, somministrati, stagisti e tirocinanti sono stati i lavoratori espulsi dal mercato e che spesso si sono ritirati dal mercato stesso ingrossando il numero dei non attivi.
Questi lavoratori sono soprattutto giovani e donne. La ragione è duplice perché riguarda sia la tipologia di contratto che è quello prevalente per chi è entrato da poco nel mercato del lavoro, e perché la crisi ha colpito maggiormente i settori economici con alto tasso di occupazione femminile e giovanile. La situazione messa ancora più in evidenza dall’asimmetria della crisi da Covid ha portato al centro del dibattito la necessita di rivedere il sistema del welfare. Si intende con ciò l’insieme dei sistemi di garanzia sociale che accompagnano la vita delle persone e che sono strettamente legate alla condizione lavorativa.
L’insieme di strumenti di tutela va dagli ammortizzatori sociali (sempre meno capaci di coprire l’universo dei nuovi lavori), alle politiche attive del lavoro, all’assistenza sociale e sanitaria per finire con le pensioni. Quest’ultimo tema diventa centrale se vogliamo porre al centro del modello sociale post-pandemia il lavoro e il futuro dei giovani nella società. Invece nel documento sindacale diventa un paragrafo che mette assieme i giovani con il lavoro povero e il lavoro discontinuo. A tutela di questo insieme di problematiche dovrebbe intervenire un finanziamento a carico della fiscalità generale.
Se si voleva mandare un segnale che il tema del lavoro giovanile e del welfare in grado di ridisegnare le tutele del futuro non sono il fulcro delle proposte sindacali di oggi, il documento e gli inviti a fare scioperi per difendere le pensioni ci sono riusciti appieno.
Proporre un grande nuovo patto sociale per il lavoro e lo sviluppo dovrebbe al contrario partire proprio da una riforma delle pensioni che veda al centro la tutela di chi oggi entra nel mercato del lavoro. È così che è possibile delineare nuove e più giuste tutele per tutto l’arco della vita e per tutti.
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