RIFORMA PENSIONI E QUOTA 100. Il 2021 è ormai alle porte e, come ci ricorda Vincenzo Ferrante in quest’ultima tappa dell’anno del percorso di approfondimento sui temi previdenziali a cura del Dipartimento Lavoro e Welfare della Fondazione per la Sussidiarietà, entrerà nel vivo il dibattito sulle misure da adottare alla scadenza di Quota 100. «Il decreto-legge n. 4 del gennaio 2019 ha congiuntamente introdotto nel nostro sistema previdenziale il reddito di cittadinanza e il trattamento di pensione anticipata “Quota 100”. Quest’ultima misura fu espressamente qualificata come norma provvisoria, destinata a produrre i suoi effetti “in via sperimentale per il triennio 2019-2021”. Date queste premesse, ora il Governo, mutata la coalizione che lo sorregge, ha dichiarato che alla sua scadenza la norma non verrà ripresentata o prorogata: si pone quindi il quesito in ordine alle conseguenze che deriveranno dall’eventuale applicazione del regime generale di cui alla legge Fornero del 2011, dettata dall’emergenza di fronteggiare la crisi dell’euro, ma di fatto sempre in larga misura rinviate (grazie o alle varie norme che hanno consentito l’uscita anticipata degli “esodati”, o, per l’appunto, a “Quota 100”). In realtà, il mancato rinnovo delle disposizioni del Governo giallo-verde non esaurirà del tutto gli effetti della norma di favore», spiega il Professore ordinario di Diritto del lavoro dell’Università Cattolica di Milano.
Perché?
Perché il decreto n. 4 del 2019 fa salva l’ipotesi che il lavoratore, conseguito entro il 31 dicembre 2021 il diritto all’uscita con Quota 100, voglia poi esercitarlo successivamente a quella data rimanendo in servizio sino all’effettivo pensionamento. Il problema si pone soprattutto quindi per quella fascia di età intercettata dalle norme del 2019 che, non avendo potuto avere accesso alla misura per la mancanza di uno dei requisiti previsti («un’età anagrafica di almeno 62 anni e un’anzianità contributiva minima di 38 anni»), dal 1° gennaio 2022 vedrà spostata in avanti in un giorno solo di cinque anni il momento del pensionamento. L’applicazione della regola generale, infatti, impone a costoro o l’uscita al maturare del requisito di vecchiaia (a 67 anni) o di attendere sino al raggiungimento della soglia della pensione anticipata, che è ormai fissata in 42 anni e 10 mesi di effettivo servizio per gli uomini (e in 41 anni e 10 mesi per le donne).
Che giudizio dare quindi di Quota 100?
Le soglie anzidette non sono irraggiungibili per quanti hanno iniziato a lavorare prima dei trenta anni e hanno avuto una carriera senza interruzioni, mentre è chiaro che nei prossimi anni cominceranno ad affacciarsi all’età del possibile pensionamento lavoratori meno fortunati, in relazione ai quali l’accesso alla pensione anticipata di anzianità sarà sempre più difficile. In questa prospettiva il sistema di “Quota 100” pare una soluzione inidonea a raggiungere l’obiettivo dichiarato (l’ingresso di giovani nel mondo del lavoro) e a risolvere i problemi strutturali del nostro sistema pensionistico.
Con la Legge di bilancio si prorogano di un anno l’Ape social e Opzione donna. Cosa dire di queste misure che consentono un pensionamento anticipato?
Come si ricorderà, nel primo caso si tratta di una forma di pensionamento previsto per varie categorie di lavoratori per i quali la particolare natura dell’attività prestata per un certo numero di anni fa temere che la loro speranza di vita residua sia inferiore rispetto alla generalità dei pensionati (ad esempio, i lavoratori che prestano servizio presso impianti industriali su turni a rotazione, operando sulla catena di montaggio, oppure lavoratori marittimi e pescatori e così via). Nel caso di Opzione donna, si tratta di un sistema che consente l’uscita anticipata con 35 anni di contribuzione, ma a patto di vedere liquidata la propria pensione integralmente con il sistema contributivo. In entrambi i casi, le soluzioni non sono troppo attrattive.
Per quali ragioni?
O perché l’anticipo si rivolge a una piccola minoranza di lavoratori, o perché, nel caso di Opzione donna, la quota di assegno mensile che il pensionato viene a perdere può essere anche di importo rilevante (anche se deve dirsi che, in prospettiva, questa soluzione comincia a diventare più attraente che in passato, per tutte quelle lavoratrici che hanno maturato pochi anni nel sistema retributivo, e cioè per un numero sempre più rilevante, posto che questo criterio di calcolo è stato oramai cancellato più di 25 anni fa). Resta da dire che gli effetti sul sistema pensionistico italiano di Quota 100 sembrano essere stati poco interessanti sul piano della prospettata sostituzione dei più anziani con lavoratori più giovani.
Ci sono dei dati per dimostrarlo?
Se si prendono a riferimento quelli del quarto trimestre del 2019, quando oramai la legge era entrata in vigore da circa un anno e ancora non si avvertivano gli effetti della pandemia, ci si accorge che si è certamente registrato un incremento dell’occupazione complessiva (circa 200 mila lavoratori in più, così da arrivare a un totale di 23,3 milioni di occupati nel complesso), ma che questo aumento non è né inferiore, né superiore a quello che si era registrato nell’anno precedente. Anzi: ove si vada a disaggregare il dato per classi di età, le modifiche nella classe di età fra i 15 e i 34 sono infinitesime (lo 0,1% in un anno) e resta invariato il tasso di età dei lavoratori più anziani (dai 50 ai 64 anni), a dimostrazione che l’effetto sostituzione per operare richiede un complesso di misure e di condizioni, che non si sono affatto realizzate. Da questo punto di vista, si deve rilevare come la pandemia abbia influito soprattutto sul piano di assunzioni, che già nell’autunno 2019 era stato varato nel settore del pubblico impiego, ma che ha ancora avuto scarsa attuazione: qui i dati sono davvero disperanti.
Ce li può illustrare?
Complice il “blocco del turn over” che ha consentito assunzioni in misura ridotta (1 nuovo dipendente ogni 5 cessati dal servizio), in circa venti anni l’età media dei dipendenti è cresciuta di più di sette anni (era pari a 43,5 nel 2001 ed era cresciuta a 50,7 nel 2018): questo significa che il numero dei dipendenti pubblici, già contenuto se paragonato a Paesi a noi vicini come la Francia, ha conosciuto un progressivo deterioramento, che ha investito sia quanti siano rimasti a lavorare per le pubbliche amministrazioni, sia – indirettamente – i tanti che beneficiano dei servizi offerti. L’invecchiamento è certamente disomogeneo (perché è più pronunziato nell’impiego presso i ministeri e gli enti locali e un po’ meno nella sanità), ma dà l’idea di quella riduzione progressiva dei servizi pubblici che è emersa in tutta la sua portata quando si è trattato di dover fronteggiare l’emergenza sanitaria conseguente al coronavirus, poiché spesso hanno saputo reagire meglio proprio le regioni dove era stata minore la riduzione del personale (e l’invecchiamento complessivo) nei servizi dedicati alla prevenzione e alla vigilanza sanitaria.
La scadenza di Quota 100 non creerebbe ulteriori problemi di innalzamento dell’età media del personale?
In questi ambiti, il venir meno del sistema di pensionamento anticipato “Quota 100” potrebbe dar luogo a criticità, conseguenti a un ulteriore invecchiamento del personale, che solo si possono fronteggiare con nuove assunzioni, così da consentire a chi rimane al lavoro in età avanzata di poter essere affiancato da personale più giovane (magari anche più dinamico) e in ogni caso più avvezzo a utilizzare le tecnologie informatiche. In questo senso, non si deve dimenticare che nel settore del lavoro pubblico l’avvio dei concorsi per le nuove assunzioni è forse passato in secondo piano in conseguenza del contemporaneo venir meno del blocco alla progressione retributiva, che era stato introdotto in via generalizzata oramai dieci anni fa, dopo la crisi del 2009: sono stati così incrementati i fondi che il bilancio statale mette a disposizione per il personale delle pubbliche amministrazioni (con circa 6 miliardi di euro aggiuntivi), tanto che è stato possibile il rinnovo di molti contratti collettivi, oramai bloccati da anni, con un adeguamento retributivo del 3,7% ed aumenti medi di circa 100 euro al mese.
Il tema caldo del dibattito è, dalla legge Fornero, l’età pensionabile, oggi a 67 anni, destinati ad aumentare indefinitamente per via dell’adeguamento automatico alla speranza di vita. Andremo in pensione tutti a 70 anni e oltre?
Già adesso, a ben vedere, il sistema prevede il pensionamento a 71 anni di età per quanti svolgano attività poco remunerate, saltuarie o a part-time: infatti, l’esigenza che la pensione sia pari a una volta e mezzo il minimo “vitale” conduce una rilevante quota della popolazione a posticipare la pensione, potendo utilizzare (ma solo in certi casi) la Naspi o l’assegno sociale, come strumento di traghettamento verso la pensione. È stato scritto, sulla base dell’esperienza di altri Paesi che avevano adottato politiche simili (nel caso la Svezia) che un simile spostamento in avanti dell’età pensionistica, avrebbe potuto condurre a un incremento delle pensioni di inabilità (o degli assegni di invalidità), poiché – a tutt’evidenza – l’incidenza di malattia invalidanti cresce con l’età. Un siffatto esito non sembra ancora registrarsi, ma a riguardo si può anche ritenere che gli effetti della “Fornero” abbiano finito per essere procrastinati nel tempo, in conseguenza dei vari interventi di deroga che si sono succeduti a partire dal 2012 (che si sono sopra richiamati) e del sopraggiungere di Quota 100.
Si possono adottare dei correttivi per evitare conseguenze negative?
È chiaro come in una situazione di questo tipo i correttivi vadano, innanzitutto, cercati al di fuori del sistema pensionistico (che è ai limiti), attraverso più efficaci politiche attive del lavoro (attese da decenni) o mediante aiuti alla natalità: argomenti ben presenti nel dibattito politico e che hanno determinato anche le riforme più recenti. Modesta, come sempre, è stata però la capacità degli apparati amministrativi di dar seguito alle promesse. Ed è principalmente su questo versante (e non su quello della disciplina di legge) che si deve principalmente intervenire. Quanto al sistema pensionistico, la pensione contributiva, pur con i suoi pregi, appare troppo vicina a un sistema privato, facendo emergere la necessità di introdurre misure correttive finalizzate a garantire che si raggiunga un effetto redistributivo, interno al sistema pensionistico stesso. Si può pensare a varie soluzioni che rallentino la progressione dell’importo delle pensioni verso l’alto, come l’introduzione di un tetto massimo alle prestazioni ovvero graduando il “peso” dei contributi man a mano che essi superino soglie crescenti, così da avvicinarsi ai sistemi “flat rate” in uso in Germania e nel Regno Unito.
Nel sistema pensionistico esiste un conflitto tra generazioni, un problema di equità o solidarietà intergenerazionale?
A mio parere il grande vantaggio del sistema contributivo si rinviene nella sua capacità di saper resistere alla tentazione di un ritorno al passato, con una frammentazione dei sistemi, che spesso non trovava altra ragione se non la capacità di lobbing dei gruppi politicamente organizzati. Questo sistema potrebbe financo assumere rilievo costituzionale, al fine di valutare quella correlazione fra partecipazione al finanziamento della previdenza e misura della prestazione che pare garantita dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, quale proiezione del diritto di proprietà. Ovvio che il criterio deve venire in rilievo innanzitutto nella prospettiva di evitare che ragioni di solidarietà finiscano per privare i più poveri del beneficio che dovrebbe corrispondere ai contributi versati (si pensi al permanere di una quarta gestione separata che sembrerebbe produrre un risparmio nei conti dell’Inps grazie a un certo numero di posizioni individuali cui, alla fine, non corrisponderà alcuna pensione). È parimenti ovvio che, come or ora si è detto, ragioni di solidarietà possano giustificare una compromissione (parziale o temporanea) di questo rapporto nel caso di pensioni più elevate. In questa prospettiva, come prima si è detto, ove non si registrino serie riduzioni dell’aspettativa di vita, la soluzione alle sperequazioni sembrerebbe doversi rintracciare più nelle politiche attive e nelle prestazioni di sostegno al reddito che in una correzione del sistema di determinazione dell’importo della pensione.
L’Ue (ma anche l’Ocse) ha evidenziato la necessità di ridurre la spesa pensionistica italiana considerata elevata in rapporto al Pil. I sindacati, e non solo, sostengono la necessità di separare assistenza e previdenza. Pensa che sia possibile arrivare facilmente a questa separazione?
Venuta meno l’integrazione al minimo oramai da più di venticinque anni, non mi sembra che si tratti di un’operazione troppo difficile sul piano tecnico, se non in relazione al sistema IVS nel suo complesso, e quindi con riguardo alle prestazioni alternative alla pensione di vecchiaia e a quella anticipata. Si era parlato, prima del lancio del reddito di cittadinanza, di un’abolizione delle pensioni di reversibilità, come strumento per “far cassa”, non vincolato a un’espressa previsione costituzionale. In verità si può discutere del fatto che i contributi non costituiscano una ricchezza da imputarsi solamente al singolo lavoratore assicurato, poiché essi sono il frutto (come spesso emerge dalla giurisprudenza in tema di assegno divorzile) di una divisione di ruoli nella coppia, che in genere avvantaggia il partner con migliori prospettive di carriera. È chiaro che una soluzione diretta all’eliminazione della reversibilità, sostituendola con un sostegno al reddito di importo indifferenziato e collegato alla situazione patrimoniale del beneficiario, potrebbe innescare una rottura dei vincoli interni alla famiglia, inducendo ognuno a pensare per sé. Mi pare, in questo senso che il problema resti la sostanziale assenza di un effetto redistributivo, di cui sopra si è detto (anche perché la riforma sul punto operata nel 1995, tiene già conto delle condizioni economiche del superstite).
Cosa occorre fare quindi?
In verità, nella giurisprudenza della Corte di Giustizia europea si tende a una tendenziale assimilazione di tutte le misure, poiché in molti sistemi le misure contributive si collegano a quelle non contributive (si pensi ad esempio al ruolo dell’edilizia popolare, abbandonato da decenni in Italia per l’incapacità delle strutture amministrative di gestire le abitazioni in maniera efficiente ed equa). Insomma: distinguere si può, ma non se ne comprende la ragione, se non quella di far emergere quanto enorme sia il contributo del lavoro salariato al sistema fiscale e contributivo italiano. Ovvio, in conclusione, che la misura principale per riequilibrare il sistema sia un’azione seria e mirata di contrasto al lavoro nero che, prima della crisi, occupava, secondo dati Istat assai precisi, quasi quattro milioni di lavoratori.