RIFORMA PENSIONI. Ieri pomeriggio Mario Draghi ha compiuto una mossa a sorpresa. Prima che si riunissero le parti sociali per esaminare i problemi su cui si è discusso tutta estate (pro o contro il green pass; pro o contro la vaccinazione obbligatoria) ha convocato a Palazzo Chigi Maurizio Landini, dando prova del consueto senso pratico. E’ il leader della Cgil, “l’uomo del monte” (non a caso Landini è nato a Castelnuovo de’ Monti, in provincia di Reggio Emilia?) che deve dire “sì”. Poi l’intendenza (i colleghi di Cisl e Uil) seguirà. Vedremo oggi se l’intervento a gamba tesa di Super Mario sarà riuscito a sbloccare uno stallo privo di ogni logica.
Ma non è di green pass che intendiamo occuparci, anche se siamo consapevoli che le “magnifiche sorti e progressive” dell’economia italiana stanno sempre sotto una spada di Damocle che potrebbe vanificare ogni speranza di raggiungere quei tassi di Pil a numero intero, dopo decenni di simil-prefissi telefonici.
Aspettiamo che Draghi dica la sua opinione su proposte di politica industriale e del lavoro (delocalizzazioni e ammortizzatori sociali) del tutto inadeguate alla nuova situazione e di modifica di quel reddito di cittadinanza ora nel mirino di alcune forze politiche, ma che il premier ha detto di condividere in via di principio. Siamo, invece, in trepida attesa di quanto il governo proporrà in materia di pensioni, in vista della scadenza di quota 100, la “Madonna pellegrina” del Carroccio che Matteo Salvini ha voluto riportare in auge, nonostante che fosse pacifico il suo uscire di scena a Capodanno.
Draghi nei sette mesi che sta a Palazzo Chigi non ha mai pronunciato, scritto o letto la parola “pensioni”. Il terreno del confronto è molto compromesso. Dopo i provvedimenti del governo Conte 1, non è emersa alcuna proposta alternativa. Se si pensa allo stupore – anche dei media – che ha sollevato la nomina di Elsa Fornero in una commissione consultiva della presidenza del Consiglio, emerge con chiarezza che è passata nell’opinione pubblica l’idea che la riforma del 2011 sia sbagliata e vada “superata”. A giustificare tale convinzione non esiste un solo argomento, ma, a pensarci bene, nel caso delle pensioni il “negazionismo” è un fatto di massa, a confronto del quale i no vax sembrano una scolaresca in gita pasquale.
Purtroppo nel silenzio del governo ha preso piede la proposta dei sindacati (non dissimile da quella della Lega) che, ai tempi del Conte 2, godeva dell’appoggio del ministro Nunzia Catalfo. Tuttavia, le pensioni non possono essere regolate da un’operazione di fantasia. Ci sono necessariamente dei tracciati da seguire e delle soluzioni in gran parte precostituite.
Nel dibattito confuso di questi mesi, a parte la posizione dei sindacati fuori da ogni tentazione (aspettiamo che Draghi convochi separatamente Landini) emergono due linee: la prima stava scritta nel Def, nel Pnrr (ma da questo stesso è stata espunta) e riguardava sostanzialmente un rientro sui binari, ancorché un po’ deviati, della riforma Fornero, salvo individuare misure più favorevoli per i lavori disagiati; un percorso che porterebbe direttamente al pacchetto Ape sociale e ai soggetti che hanno diritto di usufruirne (a 63 anni di età, facendo valere a seconda dei casi 36 o 30 di contributi) per le loro particolari condizioni di lavoro, famigliari e di vita. Poi è in pista un altro filone (da ultimo ne hanno scritto Tito Boeri e Roberto Perotti, due autorità in materia): istituire un pensionamento flessibile a partire da una soglia anagrafica (63 anni?) applicando il calcolo contributivo sull’intera anzianità di servizio compresa quella sottoposta al retributivo.
Appare evidente per quanti scegliessero di andare in pensione appena possibile in base al requisito anagrafico, pur avendo una quota parte prevalente di natura retributiva, che con il passare degli anni si ridurrebbe la quota retributiva e aumenterebbe quella contributiva. Alla fine, a pensarci bene, i soggetti più penalizzati sarebbero, però, quelli che hanno cominciato a lavorare prima, i quali potrebbero trovarsi a 63 anni con un’anzianità contributiva ragguardevole, ma con soli 10 anni (dal 2012) sottoposti al regime contributivo.
Poi c’è un discorso politico di fondo. Ha un senso che, a fronte delle prospettive demografiche attese, si scelga l’anticipo della pensione piuttosto che l’adeguatezza del trattamento? Quanto meno sarebbe opportuno che al limite anagrafico minimo venisse applicato l’aggancio automatico periodico all’incremento dell’attesa di vita. E che per effettuare il ricalcolo della quota retributiva non si seguisse il metodo usato per i vitalizi degli ex parlamentari, inventandosi i parametri del calcolo secondo criteri privi di alcun fondamento.
Se serve ribadirla ancora una volta, la mia opinione è la seguente: la disciplina prevista nel 2011 (Fornero), sfrondata da una norma sperimentale temporanea, come “quota 100”, sarebbe “autoapplicabile” secondo il seguente schema: a) pensione di vecchiaia a 67 anni e almeno 20 anni di versamenti; b) pensione anticipata di vecchiaia (ex anzianità) facendo valere, a prescindere dell’età anagrafica, 42 anni e 10 mesi se uomo, un anno in meno se donna. Anche in questo caso si tratta di una deroga giallo-verde che verrà a scadenza (salvo modifiche) alla fine del 2026; c) Opzione donna con 58 anni e 35 di contributi, ma in regime interamente contributivo
Ai tre capisaldi si aggiungono altre norme di carattere strutturale quali le tutele per i lavori usuranti e per l’accesso precoce al lavoro.
Come rispondere, però, ai “difensori della fede” che si leveranno in coro a denunciare l’ostacolo di un nuovo “scalone” (da 62 a 67 anni per quanti non potranno avvalersi dei requisiti del pensionamento anticipato ordinario) sulla strada verso l’agognata pensione? E’ questo uno spazio di interessi che potrebbe essere coperto dall’Ape sociale, una misura sempre riconfermata dal 2017, ma che meriterebbe di diventare strutturale.