RIFORMA PENSIONI, A CHE PUNO SIAMO? L’operazione Quota 100, lasciata in eredità dal precedente Governo giallo-verde, ha prodotto scarsi risultati occupazionali, un inutile spreco di risorse e un problematico impatto sociale in uscita dalla fase di sperimentazione dell’anticipo di pensionamento che scade alla fine del 2021. Tutto ampiamente previsto, anche se il Governo in carica ha preferito confermare il dispositivo legislativo per il periodo previsto di vigenza, mettendo in conto l’onere di bilancio e l’esigenza di dover intervenire per calmierare l’effetto “scalone” provocato dall’immediato aumento di 3-4 anni dell’età pensionabile per tutti coloro che raggiungeranno dal 2022 la Quota 100, come sommatoria dell’età, 62 anni per i maschi e 61 per le femmine, e degli anni di contribuzione (almeno 38). In buona sostanza, per molti lavoratori verrebbe vanificata la possibilità di accedere alla pensione di anzianità anticipata.



RIFORMA PENSIONI E QUOTA 100: QUALE VIA D’USCITA?

Il Governo ha già preannunciato l’intenzione di voler individuare in tempi utili una via d’uscita graduale facendone oggetto di confronto con le parti sociali e, in particolare, con le organizzazioni sindacali. L’incontro previsto è stato rinviato per la quarantena anti-Covid che ha coinvolto anche la ministro del Lavoro, ma è evidente l’intenzione di trovare una quadra ragionevole. Anche per offrire certezze ai lavoratori e alle aziende su un tema, quello degli esodi per motivi di pensionamento, destinato ad avere un ruolo non marginale per la gestione dell’impatto occupazionale nel corso della crisi economica post-Covid. Tema destinato a galvanizzare l’intenzione, già preannunciata dai sindacati negli incontri precedenti l’avvento dell’emergenza sanitaria, di rivendicare in modo perentorio di poter andare in pensione con i 41 anni di contributi, e di far crescere in modo graduale l’attuale combinazione tra età pensionabile e contributi versati, senza penalizzazione sul sistema di calcolo della rendita pensionistica.



Il secondo ostacolo è rappresentato dall’impatto sui conti pubblici di ipotesi di questo tipo, soprattutto se accompagnate dal prosieguo del blocco dell’aumento automatico della età pensionabile in rapporto alle aspettative di vita, che nell’insieme vengono stimati dalla Ragioneria Generale dello Stato su una cifra pari a 10,8 punti di Pil entro il 2032. Costi decisamente insostenibili, anche tenendo conto che tali stime ipotizzano uno scenario di crescita media annua della economia dell’1,1%, che potrebbe rivelarsi ottimistico. Come del resto lo è stato nel decennio recente, quando la diminuzione del Prodotto interno italiano intervenuta nel corso della crisi economica negli anni 2008-2013 ha comportato un aumento dell’incidenza della spesa pensionistica sul Pil pari al 2,5%, pur considerando l’effetto di contenimento generato dalla riforma Fornero.



Queste motivazioni hanno indotto il Governo in carica a ridimensionare le ottimistiche proposte di riforma che erano stare messe sul tappeto all’inizio dell’anno in corso, per delimitare in alternativa il perimetro delle eccezioni all’aumento dell’età e dei contributi post-Quota 100 alle fattispecie dei lavori usuranti, e a potenziare l’utilizzo dell’Ape social, cioè l’assegno provvisorio di anticipazione fino a tre anni per i lavoratori anziani che perdono involontariamente il lavoro in prossimità dell’età di pensione, prevedendo per gli altri lavoratori una possibilità di uscita a partire dai 64 anni di età e con rendite penalizzate dal calcolo contributivo dei versamenti previdenziali.

Sullo sfondo rimane l’esigenza di far ripartire l’adeguamento dell’età pensionabile alle aspettative di vita, senza il quale, sempre secondo la Ragioneria Generale dello Stato, la spesa pensionistica è destinata a rimanere assestata sul massimo storico del 17% sul Pil, con le problematiche di contenimento della stessa destinate a essere scaricate di conseguenza sui futuri pensionandi, con le rendite calcolate con il sistema contributivo, e sul contenimento delle rivalutazioni delle pensioni in rapporto all’andamento dell’inflazione.

Questo scenario deve essere attentamente ponderato nel confronto che riprenderà a breve tra il Governo e le organizzazioni sindacali. Del tutto evidente che l’unica vera condizione per rendere sostenibile nel medio periodo il sistema previdenziale, ivi comprese le ragionevoli deroghe per l’età pensionabile per i lavoratori più vulnerabili, diventa quella di una sostenuta crescita economica e di un consistente aumento dell’occupazione. Obiettivi possibili a condizione che vengano concentrate in questa direzione le risorse disponibili. Non deve essere trascurato il fatto che per sostenere le nuove assunzioni dovranno essere destinate risorse dello Stato verso l’Inps per compensare i mancati introiti per gli sgravi contributivi sulle nuove assunzioni, per la riduzione del cuneo fiscale sulle retribuzioni, e per quello generalizzato proposto per gli occupati nelle aziende del Mezzogiorno.

Il confronto si preannuncia difficile, e sarà richiesto anche uno sforzo di fantasia per trovare nuove soluzioni e possibili alternative per offrire risposte agli oggettivi fabbisogni di intervento dei lavoratori anziani, particolarmente quelli coinvolti nelle riorganizzazioni aziendali e nella perdita involontaria del lavoro. Ad esempio, trovando il modo di gradualizzare i percorsi di uscita dal lavoro rendendo compatibili quote di salario e di pensione, prevedendo specifici accordi di solidarietà per tutelare le persone più vulnerabili, integrando i salari e i contributi nel caso di transizioni obbligate verso rapporti di lavoro che comportino delle perdite retributive, utilizzando per questi scopi i fondi di solidarietà promossi dalle parti sociali e una quota dei fondi europei destinati a sostenere l’occupazione. Cose già ampiamente praticate in altri Paesi europei e che potrebbero trovare una concretizzazione nella volontà di potenziare l’istituto dell’Ape social preannunciata dal Governo.