RIFORMA PENSIONI. Dall’inizio degli anni ’90 del secolo scorso la previdenza sociale è un cantiere aperto, oggetto di continui aggiustamenti e micro-riforme a ogni legge di finanziaria o di bilancio. A tema c’è il giusto equilibrio fra garanzia di diritti di rango costituzionale e sostenibilità economico-finanziaria del sistema pensionistico e, più ampiamente, previdenziale. La “sensibilità elettorale” del tema è indubbia, ma non esime la politica dalle sue responsabilità. Invece, lo stillicidio di provvedimenti legislativi impedisce la chiara conoscenza e comprensione dei diritti e produce incertezza diseguaglianza e sfiducia tra i cittadini. Con l’intervista ad Alberto Avio, Professore ordinario di Diritto del lavoro all’Università di Ferrara, il Dipartimento Lavoro e Welfare della Fondazione per la Sussidiarietà apre un percorso volto a offrire ai lettori di questo giornale un contributo di comprensione e di giudizio sull’assetto del sistema pensionistico, che ci accompagnerà nei prossimi mesi attraverso la voce di altri autorevoli esperti.
In vista della Legge di bilancio si è riaperto il dibattito sulle politiche previdenziali e “pensione quota 100” ne costituisce uno dei capisaldi. Che valutazione dà di questa prestazione? Risponde a esigenze reali?
Per rispondere occorre innanzitutto premettere che il soggetto interessato al pensionamento anticipato non è (solo) il dipendente, ma anche (e spesso di più) il suo datore di lavoro. Sappiamo tutti che l’anticipazione delle prestazioni non svincola il datore dalla legislazione limitativa dei licenziamenti, ma, sia sul piano collettivo che su quello individuale, la possibilità che il licenziando diventi pensionando semplifica non poco l’accordo sindacale sui licenziamenti collettivi, così come l’esito del recesso individuale. Volendo comunque considerare l’interesse del lavoratore occorre tenere presente che quando, nel 2009, è stata introdotta “quota 95” – misura dalla quale discende direttamente “quota 100” – l’interesse per il lavoratore ad anticipare il pensionamento era molto più rilevante. Chi aveva 35 anni di contribuzione nel 2009 aveva diritto al calcolo della prestazione con il sistema retributivo. Per chi ha oggi 38 anni di anzianità contributiva, la prestazione calcolata con il sistema retributivo incide solo per i primi 13 anni di contribuzione: se la maggior parte della prestazione è calcolata con il sistema contributivo (e quindi cambia significativamente in ragione dell’età di pensionamento), l’interesse del lavoratore ad anticipare il pensionamento è molto ridotto.
Qual è la conseguenza pratica di questa differenza?
Per intenderci: fingendo che un lavoratore abbia avuto costantemente 25.000 euro di retribuzione annua, con quota 95 avrebbe avuto, a 60 anni, diritto a una pensione annua di 17.500 euro; con quota 100, nel 2021, avrà diritto a 14.953 euro, ma se prosegue nel lavoro – a parità di condizioni – fino a 67 anni, la sua pensione sarà di 19.777 euro annui. Certo, se non coglie l’occasione del pensionamento anticipato, corre dei rischi: nel caso di disoccupazione dell’ultrasessantenne, non essendovi più prestazioni di lungo periodo che consentano di raggiungere la soglia del pensionamento con prestazioni di tutela del reddito, potrà trovarsi in una condizione di povertà che avrà un altro tipo di costo economico e sociale.
Quota 100 scade a fine 2021: qualcuno parla della necessità di superare lo “scalone” che ne conseguirebbe, cosa ne pensa? Occorre un’altra misura di pensionamento anticipato?
Il problema è strettamente legato alla progressione automatica dell’età pensionabile. L’impossibilità di un innalzamento rigido dell’età di pensionamento deve essere ben presente al legislatore, viste le numerose deroghe introdotte e diventate strutturali soprattutto dalla riforma Fornero in avanti. Piuttosto che continuare in una politica legislativa di interventi speciali e provvisori meglio sarebbe tornare all’iniziale previsione di un’età pensionabile flessibile (nel testo originario della l.335/1995), che oggi potrebbe essere dai 60 ai 70 anni, magari condizionata al passaggio del richiedente al sistema contributivo “puro” in modo che la scelta singola non abbia effetti sul bilancio statale nel medio periodo. Non mi nascondo che questa semplice e coerente misura potrebbe avere un costo superiore a quello ritenuto sostenibile, ma qui si entra nel campo delle scelte squisitamente politiche.
Il tema caldo del dibattito è, dalla legge Fornero, l’età pensionabile, oggi a 67 anni, destinati ad aumentare indefinitamente per via dell’adeguamento automatico alla speranza di vita. Andremo in pensione tutti a 70 anni e oltre? L’ordinamento previdenziale legittima una simile dinamica?
Per la verità l’automatismo dell’adeguamento dell’età pensionabile alla speranza di vita è stato introdotto dal governo Berlusconi nel 2009, ma il governo Monti ha la responsabilità di aver fatto propria quella scelta. È intuitivo che la diversità di impegno fisico (ma non solo) tra lavori possa comportare una diversa età-limite. Com’era – e in parte è tuttora – previsto nel pubblico impiego. L’età di pensionamento dovrebbe essere adeguata all’attività svolta. In alternativa occorrerebbe che si cominciasse una seria politica di active ageeing, in modo tale da rendere possibile il passaggio, a una certa età, ad attività lavorative adeguate all’età o alla riorganizzazione dei lavori considerando le “nuove” età. L’idea che si possa alzare in modo automatico e senza limiti l’età di pensionamento a prescindere dal tipo di attività lavorativa è demagogica, così come pensare che l’elevazione della speranza di vita significhi automaticamente l’allungamento di tutte le fasi della c.d. vita attiva. In realtà all’allungamento della speranza di vita non corrisponde (ancora) un analogo allungamento degli anni di vita liberi da malattie e disabilità e questo non dovrebbe consentire l’automatismo introdotto nel nostro Paese ormai 10 anni fa. Non mi sembra, tuttavia, che questo meccanismo possa dirsi in contrasto con il nostro ordinamento; è il meccanismo di calcolo della prestazione contributiva che potrebbe andare in conflitto con la previsione dell’art. 38 Cost.
Nel sistema pensionistico esiste un conflitto tra generazioni, un problema di equità o solidarietà intergenerazionale? Come affrontarlo?
Il sistema introdotto nel 1995 non poneva, nel suo schema teorico, un conflitto generazionale, anzi, se fosse stato applicato senza clausole di salvaguardia delle aspettative avrebbe consentito un passaggio graduale e progressivo. Il problema è stato, innanzitutto, distinguere tra chi aveva più di 18 anni di contribuzione e chi meno. Su quella malintesa tutela si è proseguito con le modifiche e le deroghe “speciali e transitorie” dei successivi 25 anni, che hanno teso a mantenere certi privilegi a danno di chi entrava (con sempre più difficoltà) nel mondo del lavoro. Purtroppo nulla di nuovo, se si considera il costante utilizzo in termini di consenso politico dell’evoluzione legislativa in materia, fin dalle riforme del fascismo. Sulle possibilità di affrontarlo… il conflitto tra generazioni si è già consumato, anche se la maggior parte di coloro che fanno parte della generazione “bruciata” ancora non se ne è accorto, perché non è ancora andato in pensione. Saranno infatti coloro che sono nati tra gli anni ’60 e gli anni ’70 che hanno e avranno il peso economico delle pensioni retributive mentre percepiranno pensioni (soprattutto) contributive. Le generazioni successive avranno ancora il problema della sostenibilità economica per il rapporto tra occupati e pensionati (Covid permettendo), ma almeno avranno l’onere di pagare una pensione non diversa da quella che viene promessa a loro.
L’Ue (ma anche l’Ocse) ha evidenziato la necessità di ridurre la spesa pensionistica italiana considerata elevata in rapporto al Pil. I sindacati, e non solo, sostengono la necessità di separare assistenza e previdenza. Dovrebbero anche partire i lavori di una commissione tecnica sul tema. Pensa che sia possibile arrivare facilmente a questa separazione?
Proprio sulla necessità di ridurre la spesa pensionistica si basava la riforma del 1992 e del 1995. Sulle stesse motivazioni che gli organismi sovranazionali ieri (e oggi) mettevano in campo. È vero che destiniamo alla vecchiaia molte risorse (a prescindere dal modo eterogeneo in cui queste risorse sono calcolate: basti pensare che per Eurostat il Tfr è un costo pensionistico mentre noi insegniamo che si tratta di retribuzione differita). Ma è anche vero che destiniamo, per le altre spese di protezione sociale, meno di quello che fanno gli altri: i conti al 2017 ci dicono che la spesa pro capite per prestazioni sociali in generale ci relegava al 12° posto nell’Ue a 28. Sotto la media Ue e dietro a Germania, Francia, Regno Unito. Situazione non molto diversa a quella di 25 anni fa. Certo, se guardiamo allo stesso costo, ma rapportato al Pil, la situazione cambia.
In che modo?
Raggiungiamo il 7° posto. In ogni caso rimanendo dietro a Francia (Paese con il più alto rapporto tra spesa e Pil) e Germania (5° posto, dati Istat “Today” 28 aprile 2020). Da questi dati possiamo trarre, quindi, che non è la spesa previdenziale a essere il problema del debito pubblico italiano, sebbene la spesa pensionistica sia sproporzionata. Fattore, quest’ultimo, dovuto a politiche redistributive iniziate oltre 50 anni fa e che hanno utilizzato la pensione come un jolly per il sostegno del reddito, del mercato del lavoro, delle politiche familiari e di altro ancora. Piuttosto che scrivere i bilanci in modo diverso occorrerebbe ricordare che il fine del costituente era di utilizzare il sistema previdenziale come strumento elettivo per il raggiungimento dell’eguaglianza sostanziale. La Costituzione non vincola in modo puntuale il legislatore ordinario a metodi e istituti particolari (come risulta dall’intero dibattito sull’interpretazione dell’art. 38 Cost.), e neanche strane letture di dati eterogenei dovrebbero vincolarlo.