RIFORMA PENSIONI. Sfidando impavido le insidie del Covid-19, il Presidente dell’Inps Pasquale Tridico ha presentato e illustrato, la settimana scorsa, il XIX Rapporto dell’Istituto (per l’anno 2019). Come sempre sono molto circostanziati e importanti i documenti e le statistiche che compongono il “pacchetto” sulle attività e lo stato di salute dell’Ente previdenziale e assistenziale tra i più importanti dell’Europa e del mondo. Si possono seguire gli andamenti delle principali prestazioni erogate dall’Inps, con particolare riferimento alle novità introdotte dal decreto n. 4 del 2019 (quota 100 e dintorni e RdC), mentre non sono di facile consultazione – questa però è un’opinione personale – gli aspetti finanziari ed economici del bilancio consuntivo, ammesso e non concesso che si possa attribuire un significativo valore a dati riscontrati prima dello tsunami del virus.
Tanti argomenti meriterebbero quindi di essere approfonditi e per quanto ci riguarda non rinunceremo a saccheggiare – il nostro è un apprezzamento – il Rapporto. Appare per ora prioritario soffermarsi sui lineamenti di una proposta di riforma del sistema pensionistico, ipotizzata dal prof. Tridico nella sua Presentazione. Il tema è all’ordine del giorno nel confronto in atto tra il Governo e le organizzazioni sindacali, secondo un programma caratterizzato da una prima fase di misure parziali (soprattutto proroghe) da inserire nella Legge di bilancio 2021 e da una seconda fase nella quale il Governo dovrebbe presentare i disegno di legge delega recante i criteri e gli obiettivi del riordino del sistema nel suo complesso.
Per andare direttamente al cuore del problema occorre concentrare l’attenzione sulle proposte riguardanti la “fuoriuscita” dalle deroghe temporanee e sperimentali e il rientro nei normali percorsi senza incappare nello “scalone” (da 62 a 67 anni) che sarebbero costretti a salire quanti, dal 2022, non avessero i requisiti per il pensionamento anticipato sulla base del solo requisito contributivo (42 anni e 10 mesi per gli uomini, un anno in meno per le donne fino a tutto il 2026) a qualunque età anagrafica. Scrive a questo proposito Tridico: “Un’ulteriore ipotesi di flessibilità, opzionale, potrebbe consistere in un modello che divida la quota di pensione in una parte retributiva e una contributiva. A sessantadue anni, con venti anni di contributi e un importo soglia che non comporti integrazioni, si potrebbe ottenere un anticipo pensionistico calcolato soltanto sulla parte contributiva. La parte retributiva, invece, potrebbe rendersi accessibile a partire dai sessantasette anni di età (con la possibilità di prevedere finanche una anticipazione della parte retributiva, da scontare successivamente sulla pensione piena)”.
Ovviamente il meccanismo dovrebbe essere meglio dettagliato; per esempio, che cosa significa la definizione di “un modello che divida la quota di pensione in una parte retributiva ed una contributiva”? La divisione della retribuzione pensionabile è già stabilità dalla legge in base alla riforma Dini del 1995 e a quella Fornero del 2011. Al 94% del flusso delle pensioni liquidate si applica dal 2012 il c.d. sistema misto; all’interno della platea interessata vi sono soggetti – quelli che a fine 1995 non avevano 18 anni di versamenti – che se lo portano appresso, pro rata, dal 1996, mentre altri se la cavano con 7 anni e gli altri lavorati a partire dal 2012. Benché la proposta nel suo insieme contenga degli aggiustamenti, il trattamento di quanti decidessero di avvalersi di questa forma di flessibilità sarebbe determinato da una serie di trappole, tutte ai danni dell’adeguatezza delle prestazioni. Gli unici soggetti a non essere penalizzati sul piano economico sarebbero quelli che possono vantare un lungo o un intero periodo in regime contributivo, ma ancora oggi si tratterebbe di un numero modesto. Per di più essendo tutto il montante sottoposto al calcolo contributivo, l’importo del trattamento sarebbe rapportato a un coefficiente di trasformazione che penalizza la quiescenza anticipata. Viceversa a quanti avessero una lunga anzianità in regime retributivo, sarebbe applicata la sospensione della corrispondente quota fino al raggiungimento dei 67 anni (a quanto pare l’eventuale anticipo dovrebbe essere conguagliato a quel momento).
Ma ha un senso trasformare una via d’uscita anticipata in una sorta di caccia al tesoro? Non sarebbe meglio lasciar perdere e muoversi – magari aggiornandole – nell’ambito di regole più oneste, perché più chiare? L’esercizio di un diritto non può assomigliare all’arrampicata sull’albero della cuccagna. Tanto più che alle esigenze con cui si vorrebbe far fronte con questo meccanismo strampalato provvede già, egregiamente, il pacchetto Ape (che sarebbe opportuno rendere strutturale).