Nel dibattito sulla riforma delle pensioni, che sembra ormai diventato “perenne”, di sicuro poca attenzione è stata dedicata ai giovani (ma non solo a loro). Al di là dell’utopistica idea di superare il sistema contributivo o di garantire una pensione minima (portando così avanti l’idea di un reddito di cittadinanza permanente), non sembra esserci adeguata attenzione sul principale pilastro su cui basare il futuro previdenziale dei giovani: il lavoro.
Senza un’occupazione di qualità e adeguatamente retribuita, infatti, non è possibile nemmeno immaginare di poter aspirare un domani a una pensione soddisfacente e che non sia frutto di politiche assistenziali. E probabilmente diventa anche più difficile poter pensare di contribuire a contrastare “l’inverno demografico” che getta ombre sulla sostenibilità del sistema previdenziale italiano.
Serve a poco sventagliare il contratto di espansione come strumento utile a incentivare l’occupazione giovanile se non vengono introdotti perlomeno dei paletti che oltre al numero di nuove assunzioni contribuiscano a garantirne la “qualità”. C’è da sperare che la presenza dei sindacati e del ministero del Lavoro necessaria alla sottoscrizione del contratto di espansione possa essere in tal senso utile.
Sulla carta il sistema contributivo ha il pregio di lasciare al lavoratore la libertà di scegliere quando ritirarsi, sapendo che saranno i suoi versamenti a garantirgli la futura rendita. Nella realtà, oltre a quel piccolo dettaglio che si chiama sistema a ripartizione (per cui i contributi versati oggi dai giovani servono a pagare le pensioni presenti e future degli anziani), l’importo dei contributi non sempre può garantire futuri assegni dignitosi. Per questo è essenziale per i giovani poter disporre della previdenza complementare.
Oggi, però, chi si affaccia per la prima volta sul mercato del lavoro si trova di fronte a una “selva” di fondi aperti, chiusi, ecc., con diverse tipologie di costi e di possibili rendimenti futuri. La semplicità di non doversi occupare minimamente del primo pilastro (i contributi trattenuti direttamente in busta paga che praticamente nessuno sa nemmeno a quanto ammontino) si contrappone alla complessità di dover scegliere a chi e come affidare la gestione del proprio Tfr e di eventuali contributi volontari in un fondo pensione. Come se non bastasse, una volta effettuata la scelta diventa difficile capire quanto si andrà effettivamente a incassare una volta in pensione. Tabelle e simulazioni spesso non aiutano a chiarirsi le idee quando sono espressi in rendita annuale lorda. Che tra l’altro appare “misera” se non ci si ricorda che è aggiuntiva rispetto alla pensione ordinaria.
Oltre quindi a pensare strumenti di semplificazione per le adesioni alla previdenza complementare potrebbe essere utile creare uno strumento che unisca le due rendite previste (la pensione ordinaria e quella integrativa) in modo da fornire un quadro più preciso di quale saranno gli introiti su cui si potrà fare affidamento una volta in quiescenza. Uno strumento che ovviamente dovrebbe seguire il lavoratore lungo l’arco della sua carriera “consigliandolo” anche sulle mosse da intraprendere (eventuali riscatti o versamenti aggiuntivi una tantum) in base al contratto, alla retribuzione o allo stato di disoccupazione. Si sta parlando tanto di digitalizzazione, innovazione della Pa e fintech: facciamo in modo che almeno qui ci sia più attenzione al futuro pensionistico dei giovani.
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