RIFORMA PENSIONI E NUOVO GOBERNO. Il 1° gennaio 2023, a legislazione vigente, si potrà andare in pensione a 67 anni di età e almeno 20 anni di contribuzione oppure (fino a tutto il 2026) con un’anzianità di 42 anni e 10 mesi se uomini e un anno in meno se donne, a prescindere dall’età anagrafica. Anche la soluzione/ponte di Quota 102 (64 anni+38 di contributi) verrà a scadenza con la fine dell’anno in corso. Nessun dramma, visto che sono tante le uscite di sicurezza accumulate negli anni per “aggiustare” il rigore della riforma pensioni della Fornero. Ma, a parte le proposte e le promesse contenute nei programmi elettorali, il futuro prossimo delle pensioni degli italiani è già definito, a meno che non intervengano modifiche nella Legge di bilancio che il nuovo Governo dovrà fare di corsa (col rischio di inciampare nell’esercizio provvisorio), a meno che l’esecutivo uscente non gli anticipi l’impianto della manovra. Sarebbe una novità e, nello stesso tempo, un’iniziativa molto significativa perché darebbe un senso di continuità rispetto all’azione del Governo precedente, che valorizzerebbe il profilo di quello nuovo tenuto sotto osservazione dalle istituzioni e dai mercati internazionali.



Tutti ricordano come il Governo Conte 1 costituito nel 2018 entrò nel contesto finanziario internazionale con presunzione e arroganza, poi dismessa nel giro di pochi mesi, dopo molti danni provocati dalle parole in libertà che andavano di moda allora allo scopo di “tenere una diversa postura” in Europa (purtroppo anche Meloni ha usato questa espressione nell’unico discorso che ha fatto dopo la vittoria). Che cosa potrebbe contenere – allora – il ddl di bilancio in materia di riforma pensioni?



I progetti della coalizione (come quelli dei singoli partiti) che ha vinto le elezioni sono molto generosi per quanto riguarda sia l’incremento dei trattamenti minimi, sia la solita montatura della flessibilità in uscita (leggi: abbassare l’età pensionabile), sia il grande inganno nei confronti dei giovani col premio di consolazione di “una pensione di garanzia” a fronte del carico di pensionati anziani/giovani poveri/benestanti, provenienti dalle generazioni dei nonni e dei padri, di cui dovranno farsi carico per alcuni decenni. È difficile che il nuovo Governo passi la mano di fronte a un piatto che includa il gettone delle pensioni. Ma, anche volendo onorare gli impegni assunti in campagna elettorale, non sarà un’impresa facile.



Si parla di una manovra da 40 miliardi, di cui almeno 35 vincolati al rifinanziamento delle misure di sostegno e di aiuti varati dal Governo Draghi. Poi si renderà necessario un ulteriore intervento sul caro energia per le famiglie e le imprese. Un’ulteriore variabile imprevista riguarda l’incidenza dell’inflazione anche sulla spesa pubblica, in particolare sulle prestazioni monetarie. Il primo problema riguarda la rivalutazione automatica delle pensioni nei termini già previsti dalle leggi vigenti. All’effetto determinato dall’inflazione in forte crescita si è aggiunto l’anticipo, da ottobre, di un 2% della rivalutazione previsto nell’anno prossimo per i redditi fino a 35mila euro l’anno. È noto che i pensionati sono l’unica categoria che conserva una sorta di scala mobile che consentirà di recuperare il potere d’acquisto delle loro rendite svalutato pesantemente in questi ultimi mesi. Peraltro col Governo Draghi è stata ripristinata la regola – manomessa più volte negli ultimi decenni allo scopo di “fare cassa” – che prevede una rivalutazione per “scaglioni” del 100% fino a 4 volte l’importo minimo (2.097 a valori 2022), al 90% sulla quota da 4 a 5 volte il minimo (tra 2.097 e 2.622) e il 75% sulla quota di pensione sopra tale ultimo importo. Così, a decorrere dal prossimo 1° gennaio le pensioni recupereranno – sulla base degli scaglionamenti previsti – l’inflazione del 2022 che ha registrato un aumento dello 0,9% su base mensile e una crescita del 6,9% su base annua.

Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio, ipotizzando un’inflazione superiore di due punti rispetto al 5,8% previsto nel Def per il 2022, la rivalutazione delle pensioni all’inflazione costerà allo Stato circa 32 miliardi lordi nei prossimi tre anni (5,7 miliardi nel 2023, 11,2 nel 2024, 15,2 nel 2025) che andranno a beneficio degli oltre 16 milioni di pensionati.

Anche la Nadef ha rifatto i conti. Correttamente il Governo non ha fatto delle proposte di intervento, ma le analisi e le previsioni contenute della Nota di aggiornamento suonano come l’avviso di un pericolo incombente. La crescita annua prevista nel 2022 per la spesa per la riforma pensioni e le altre prestazioni sociali viene rivista al rialzo rispetto al Def, rispettivamente al +3,9 % e al +0,6% esclusivamente per gli interventi normativi adottati successivamente. Le nuove previsioni per il 2022 scontano, infatti, i maggiori oneri derivanti dalle misure espansive introdotte negli ultimi mesi, tra cui le indennità una tantum di 200 euro e 150 euro per lavoratori, pensionati e specifiche categorie di soggetti, l’anticipo dal 2023 al 2022 del conguaglio per le pensioni dello 0,2% (relativo al tasso di inflazione registrato nel 2021) e un incremento di 2 punti percentuali per le pensioni fino a 35.000 euro limitatamente alle mensilità di ottobre-dicembre (inclusa la tredicesima mensilità).

Negli anni successivi al 2022, e in particolare nel biennio 2023-2024, la spesa pensionistica risentirà maggiormente dell’indicizzazione ai prezzi delle prestazioni basata sul tasso di inflazione dell’anno precedente, rivista al rialzo in misura significativa rispetto al Def. La spesa complessiva per prestazioni sociali in denaro è attesa quindi crescere a un ritmo del 4,4% nel 2023 e 4,3% nel 2024, per poi tornare ad aumentare a un tasso del 2,8% nel 2025.

Per farla breve, l’avvertimento del Governo uscente a quello che entrerà in carica consiste in una domanda che potremmo definire retorica: è possibile fare una riforma delle pensioni che aumenta la spesa pensionistica con nuovi interventi onerosi quando è già complicato ottemperare agli impegni già previsti dalla legge?

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