Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, che non nella tua filosofia“, fa dire Shakespeare a un suo personaggio. E in effetti, la realtà, prima o poi smaschera sempre l’ideologia più o meno velata che sottende l’enfasi con cui, ad esempio, si lanciano proclami politici. È il caso delle due misure bandiera dell’ex Governo giallo-verde, sulla cui opportunità di conservazione più di uno si sta interrogando.



La misura verde (“quota 100”) ha generato molte discussioni sull’opportunità del mantenimento. Quest’anno non se ne farà nulla, sebbene sia probabile che termini prima della sua scadenza naturale (2021). Le uscite, infatti, sono state inferiori al previsto, ma il problema serio, o per lo meno da gestire, è ben diverso: lo sconto temporaneo introdotto per favorire il pensionamento anticipato (62 anni di età e 38 anni di contributi) rischia di generare un nuovo scalino dopo il periodo di vigenza, cioè a partire dal 2022, quando per andare in  pensione si tornerà alle regole ordinarie: 67 anni di età anagrafica per la pensione di vecchiaia, oppure 42 anni e 10 mesi di contributi per la pensione anticipata.



Come si può facilmente notare, il termine del regime agevolato comporta uno “scalino” di circa 5 anni; la mancata previsione di un regime transitorio nel 2011 comportò numerose difficoltà dovute al differimento dell’età di pensionamento per un periodo analogo, tanto da indurre il legislatore ad intervenire  a più riprese sul problema dei c.d. “esodati”, ampliando la platea dei beneficiari della disciplina transitoria non prevista della riforma (consistente nel riconoscimento dei requisiti pensionistici previgenti) e garantendo la copertura previdenziale potenzialmente a oltre 200 mila lavoratori. C’è poi un ulteriore problema legato al fatto che le domande di pensionamento “quota 100” hanno interessato soprattutto la Pubblica amministrazione (secondo le parole del Presidente dell’Inps Tridico, le domande presentate dai lavoratori del settore privato sono state superiori del 32,9% rispetto al 2018, mentre nel settore pubblico sono state tre volte maggiori), mettendo in ginocchio interi settori, quali scuola e sanità, che già soffrivano da tempo di carenza di personale, contrariamente alle rosee previsioni leghiste in merito all’incremento del tasso di occupazione giovanile, in sostituzione del personale in quiescenza: secondo stime della Banca d’Italia, nel periodo 2020-2022, l’occupazione crescerà a tassi moderati e le maggiori fuoriuscite dal mercato del lavoro connesse con quota 100 verrebbero solo parzialmente compensate da assunzioni: l’impatto di queste misure sull’occupazione complessiva sarebbe negativo (-0,4%). Il tasso di disoccupazione si ridurrebbe gradualmente, raggiungendo il 9,4% alla fine del triennio, cioè a livelli lievemente inferiori a quelli attuali: a ulteriore dimostrazione del fatto che non c’è automatismo fra uscita dal lavoro in anticipo per pensionamento e nuove assunzioni.



Per quanto riguarda il reddito di cittadinanza, Tridico ha specificato che hanno fruito della misura oltre 2 milioni di persone. Naturalmente, manca all’appello la fase di costruzione seria ed efficace del complesso delle politiche attive che dovrebbero essere finalizzate a sostenere e stimolare la ricerca di lavoro da parte di chi ne è rimasto privo; misure simili, infatti, hanno senso solo se provvisorie e reintroduttive nel mondo del lavoro, per evitare il formarsi di sacche più o meno stabili di statalismo, in cui, purtroppo, il nostro Paese vanta una lunga tradizione.

Delle più di 700 mila persone occupabili, circa 30 mila hanno trovato lavoro e di questi solo una minima parte è stata assunta con contratto a tempo indeterminato. Il Presidente dell’Inps ha quindi riconosciuto che, in sé, il reddito di cittadinanza non crea lavoro: “Per creare occupazione servono investimenti“. Al ridimensionamento del cavallo di battaglia dei pentastellati, da misura rivoluzionaria a semplice misura di sostegno al reddito – cosa che in Italia esisteva già con il Reddito di inclusione – contribuiscono sempre le analisi della Banca d’Italia, che prevedono una lieve accelerazione dei consumi delle famiglie nel triennio 2020-2022 (circa lo 0,8% all’anno); secondo le valutazioni dell’Istituto, il Reddito di cittadinanza innalzerebbe la spesa delle famiglie per un ammontare cumulato dello 0,3% circa tra la seconda metà del 2019 e il 2020. A ciò occorre aggiungere il nodo dei controlli, considerato l’elevato tasso di irregolarità potenziale spesso associato alle prestazioni di tipo assistenziale, con il conseguente possibile incremento del contenzioso.

Sono lezioni della storia che è bene tener presente in un momento in cui il Governo si appresta – per l’ennesima volta! – a riaprire il dossier delle pensioni, alimentando la già forte incertezza e sfiducia che predomina tra gli italiani. Del resto, la relativa calma seguita all’esito delle elezioni emiliane potrebbe tradursi in occasione propizia, quando, per la prima volta da novembre, lo spread è tornato a quota 133 e il rendimento del Btp decennale sotto l’1%. La conferma di tali livelli anche nei prossimi mesi comporterebbe un risparmio sugli interessi di circa 800 milioni l’anno per lo Stato. Circostanza che il ministero dell’Economia non ha mancato di rilevare: è, in fondo, la carta migliore da giocare per riconquistarsi il consenso elettorale.