RIFORMA PENSIONI, LA CORTE DEI CONTI “RESUSCITA” LA RIFORMA FORNERO

Riforma Pensioni: anche la Corte dei Conti è arrivata – nel Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica (RCFP) 2021 – alla conclusione che, dopo le deroghe screanzate degli ultimi anni, sarebbe bene – come il figliol prodigo – fare ritorno alla “casa paterna” (in questo caso “materna” visto che parliamo della riforma pensioni della Fornero). “Dopo l’intervento derogatorio – scrive la Corte – rappresentato da Quota 100 è importante che si riaffermi la centralità della legge 214/2011 (dove è inclusa, appunto, la riforma Fornero, ndr) e che il quadro normativo previdenziale ritrovi i suoi caratteri di certezza che lo hanno connotato fino al 2019. È d’altra parte opportuno – ecco le compensazioni indicate nel RCFP – che nella difficile fase di transizione a cui il mercato del lavoro è sottoposto a causa della pandemia, gli istituti di deroga esistenti (l’Ape sociale in primis) si facciano carico, anche attraverso eventuali ritocchi ed estensioni, della gestione di situazioni mirate, se meritevoli di protezione. Vanno riaffermate prospettive di equilibrio del settore, anche per garantire condizioni di equità intergenerazionale in un contesto in cui la spesa sociale complessiva sarà messa sotto pressione non solo dall’ageing, ma anche dall’auspicabile costruzione di un rinnovato sistema di ammortizzatori sociali”. 



Come è loro solito – diversamente dai sindacati – i giudici contabili sono abituati a dare spiegazioni delle considerazioni e delle raccomandazioni espresse. Nel 2020 la spesa per prestazioni sociali in denaro si è attestata sui 399,4 miliardi di euro. In crescita del 10,6 per cento su base annua, è risultata pari al 24,2 per cento del Pil (+4 punti) e al 50 per cento della spesa corrente primaria (+1,8 punti). Dati i caratteri di eccezionalità dell’esercizio 2020, si osserva, non sorprendentemente, che, in quota di Pil, le uscite effettive hanno superato i valori inizialmente programmati di 4,2 punti. Nel caso delle prestazioni pensionistiche lo scarto si è commisurato in 1,7 punti (17,1 contro i 15,4 inizialmente programmati).



Nel caso delle altre prestazioni l’incidenza è risultata a consuntivo del 7,1 per cento in luogo del 4,6. Risulta evidente, nel confronto, l’effetto “denominatore”, determinato dal sostanzioso calo del Pil legato alla crisi pandemica. Se si fa riferimento ai valori assoluti nominali si riscontra una spesa complessiva superiore di 27 miliardi a quella programmata nel 2017, esito di una sovrastima di quasi 6 miliardi per quel che riguarda le prestazioni pensionistiche e di una sottostima di oltre 33 miliardi per le altre prestazioni. Infatti, se la componente pensionistica ha consolidato il suo tasso di crescita intorno al 2 e mezzo per cento nominale, sono state le componenti diverse da quelle per pensioni a giocare un ruolo particolarmente importante; naturalmente, del tutto eccezionale è stato in primo luogo l’andamento delle integrazioni salariali che, pari nel 2019 a meno di 800 milioni, sono risultate di 14,5 miliardi nel 2020, a seguito dei noti interventi disposti a più riprese. Inoltre, un tasso di crescita pronunciato è stato registrato dalla spesa per indennità di disoccupazione (cresciuta di oltre 1 miliardo e dell’8,6 per cento) e si è contestualmente verificato un marcato incremento delle indennità di malattia, per infortuni e maternità: tali esborsi, intorno ai 7,7 miliardi in media nel triennio pre-pandemia, sono cresciuti a circa 9,5 miliardi (+19 per cento). Tra le tipologie di spese, la sola variazione negativa è stata registrata per gli assegni familiari (da 6 a 5,8 miliardi, il -3,3 per cento). 



Trovano poi conferma secondo la Corte dei Conti – alcuni aspetti noti delle politiche di protezione sociale in Italia: la forte incidenza degli esborsi per pensioni rispetto alla spesa previdenziale totale, al di là del balzo “congiunturale” di quella per integrazioni salariali e disoccupazione nel 2020; l’attenuazione della crescita dopo gli interventi con la legge 214/2011 e la successiva ripresa nel 2019; l’andamento ciclico dell’incidenza della spesa pensionistica sulla spesa primaria corrente, con fasi di (a volte) rapida discesa e risalita, anche in connessione all’andamento del denominatore (ovvero del Pil). In termini di incidenza sul prodotto, al di là dell’anomalia del 2020, appaiono chiari sia l’accelerazione che ha preceduto la legge 214/2011, sia gli effetti di freno esercitati da quest’ultima e poi in parte rimessi in discussione e ridimensionati con gli interventi del d.l. n. 4/2019, del Governo Conte 1. 

RIFORMA PENSIONI: ANTICIPATE E DI VECCHIAIA, I NUMERI DELL’INPS A CONFRONTO

I dati dell’Inps relativi ai flussi annuali di pensionamento dei lavoratori del settore privato e del pubblico impiego evidenziano, per il 2020, una certa vivacità delle nuove uscite. Nell’assieme, le misure introdotte con il d.l. n. 4/2019 hanno continuato a dispiegare i loro effetti mentre la normativa di fondo sull’adeguamento alla speranza di vita dell’età pensionabile ha determinato una decisa crescita delle nuove pensioni di vecchiaia. 

Nel 2019 gli andamenti delle due principali tipologie, per la prima volta, divergono: mentre le pensioni di vecchiaia rallentano per l’adeguamento a 67 anni del requisito di accesso, quelle anticipate registrano gli effetti di Quota 100. Nel 2020 è visibile sia l’elevato rimbalzo del numero di nuove pensioni di vecchiaia (+60 per cento), sia la conferma della quota raggiunta nel 2019 per il numero di pensioni anticipate. Le restanti categorie (ai superstiti e per invalidità previdenziale) mostrano una sostanziale stabilità nel tempo; ma nel 2020 si osserva una variazione dell’andamento, per effetto della situazione pandemica. Il minor numero di pensioni di invalidità (-17 per cento) è presumibilmente associabile alle difficoltà amministrative per l’accertamento dello stato di invalidità. L’aumento delle pensioni ai superstiti (+7,4 per cento, +18 mila nuove pensioni) potrebbe essere correlato al drammatico aumento del tasso di mortalità determinato dalla pandemia. Da segnalare che questa tipologia di pensione è per circa l’81 per cento liquidata alle donne e che l’incremento registrato nel 2020 è ascrivibile a liquidazione di pensione a superstite donna. 

Quanto, infine, all’età media alla decorrenza del pensionamento, mentre per le pensioni di vecchiaia, rispetto alla regola generale, il numero di soggetti che beneficiano attualmente di regole più favorevoli (lavori gravosi, lavori usuranti, prepensionamenti) è (relativamente) limitato, per le pensioni anticipate le deroghe generalizzate introdotte dal d.l. n. 4/2019 – unitamente alle estensioni disposte per Opzione donna – incidono sensibilmente sui valori dell’età al pensionamento. Nel 2020 si registra un’età media alla decorrenza per le pensioni liquidate di vecchiaia pari, complessivamente, a 67,2 anni, dato superiore all’età minima prevista dalla legge (67 anni). Tale differenza è determinata sia dall’ovvia circostanza che la pensione decorre dal mese successivo al compimento dell’età utile e sia dall’età registrata nei comparti dei lavoratori autonomi e dei parasubordinati (rispettivamente 67,3 e 68,3 anni). Il superamento dell’età è correlato alle regole di pensionamento nel regime contributivo e, in alcune Gestioni, i lavoratori potrebbero non raggiungere il requisito contributivo minimo al compimento dell’età anagrafica minima prevista. 

Il valore più basso registrato per i Dipendenti pubblici (66,4 anni) è associato al dato riferito agli “Uomini”, senz’altro influenzato dalle liquidazioni di pensione ai lavoratori del Comparto sicurezza-difesa-soccorso pubblico e agli specifici parametri di età previsti per l’accesso alla pensione di vecchiaia. 

Per le pensioni anticipate l’età media alla decorrenza registrata nel 2020 è di 62 anni. Il dato è inferiore a quello registrato nel 2019 (62,3 anni), ma rimane influenzato dai pensionamenti in deroga con Quota 100 e, in misura minore, dalla finestra trimestrale per l’accesso a pensione anticipata introdotta sempre con il d.l. n. 4/2010. Il valore risulta infatti più elevato rispetto a quello presentato per le pensioni di anzianità liquidate nel triennio 2016-2018, in assenza di Quota 100: rispettivamente, si registrava nel complesso un’età media di 60,6, 61,0 e 61,0 anni. Questo significa . spiega la Corte – che le persone in grado di raggiungere i requisiti ordinari di legge per accedere alla pensione anticipata, sono “giovani” tra 60-61 anni. I dati si distorcono con l’accesso dei “quotacentisti”, che possono accedere a partire dai 62 anni di età e 38 anni di contributi, sono mediamente “più vecchi” e sono “molti”. Di conseguenza, si verifica un fatto non del tutto intuitivo e cioè che Quota 100 ha determinato l’innalzamento dell’età media dei pensionati di anzianità. Ciò induce a raccomandare cautela nell’analisi dei dati sull’età al pensionamento. Nel 2020, comunque, il fenomeno tende ad attenuarsi sia per il minor numero di accessi registrato, sia per un maggior addensamento dei lavoratori nella fascia di età più bassa.

In generale, l’anzianità contributiva con cui i lavoratori si sono presentati al pensionamento è elevata, oltre il 65 per cento degli interessati vanta 40-41 anni di servizio. Ciò determina un alleggerimento della spesa associata all’istituto, considerato che il requisito ordinario per l’accesso a pensione anticipata è pari a 42 anni e 10 mesi (un anno in meno per le donne). 

In definitiva, i lavoratori prossimi al raggiungimento del requisito ordinario di pensionamento anticipato sembrano quelli più propensi a optare per Quota 100, con i conseguenti riflessi in termini di minor carico sulla spesa, considerato che il numero di lavoratori optanti registrato, pur riflettendo una minore adesione rispetto alle attese, permane comunque confrontabile con quello del 2019: a fronte di un anticipo che può arrivare a 4 anni e 8 mesi (nel caso degli uomini), i dati effettivi indicano che per i due terzi degli interessati esso si riduce a meno di due anni in virtù dell’elevata anzianità di servizio posseduta.

Questo trend – pur presentato alcune significative differenze rispetto a quello del 2019 – conferma una caratteristica di fondo dei requisiti fatti valere dai “quotacentisti”: quella di andare in quiescenza con un’anzianità di servizio ormai prossima a quella richiesta, fino a tutto il 2026, per accedere al pensionamento anticipato ordinario. Il che dovrebbe dimostrare che, nella maggioranza dei casi, lo “scalone” è la solita “tigre di carta” esibita a scopi propagandistici. 

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