Il Governo, nel annunciare la presentazione del Def (che dovrebbe arrivare oggi in consiglio dei ministri), ha già fatto capire che – direbbero a Roma – “non c’è trippa per i gatti”, e neppure per la riforma pensioni. Giancarlo Giorgetti ha detto che con lo sfondamento del deficit per circa tre punti rispetto a quanto previsto nella Nadef il minimo che dobbiamo aspettarci è una procedura di infrazione. Poi continuano i segnali inquietanti determinati dal Superbonus. Secondo Rainews – che riprende anticipazioni da fonti governative – gli ultimi conteggi sui bonus, forniti dal sottosegretario all’Economia, Federico Freni, si attesterebbero a oltre 210 miliardi di euro: una cifra monstre che supera quella del Pnrr e che impressiona anche alla luce del recente allarme lanciato dagli scienziati sull’arretramento della sanità pubblica per mancanza di fondi.
Anche i sindacati (la Cgil e la Uil hanno proclamato uno sciopero per giovedì 11 aprile con riferimento alla questione della sanità che sarà al centro della manifestazione del 20 aprile) denunciano una politiche caratterizzata da “15 anni di disinvestimenti” che hanno portato a un gap di 50 miliardi di euro. Il che ci porta – dicono – ad essere il Paese che si ferma al 6,4% del Pil, quando l’obiettivo dovrebbe essere almeno pari al 7%, così come dice l’Oms. In verità questo ragionamento è viziato da un pregiudizio: la spesa privata collettiva e individuale (40 miliardi l’anno) viene considerata una deviazione rispetto al ruolo del Ssn, non già una risorsa che in sinergia con la spesa pubblica può essere in grado di tutelare la salute dei cittadini, razionalizzando gli interventi e l’impiego delle risorse attraverso una collaborazione istituzionalizzata tra il sistema pubblico e l’autonomia privata sulla base di una divisione dei ruoli e delle funzioni, ciascuno per la sua parte.
Si tratta cioè di stabilire quale protezione deve essere garantita (e a chi e a quali condizioni e criteri di universalità essenziali ma non onnicomprensivi) dal Ssn e quanto può essere affidato – in modo sostitutivo – all’iniziativa privata collettiva e individuale. In sostanza le risorse ci sono, non sono impiegate in modo razionale e finiscono per essere ripetitive perché succede che le medesime prestazioni vengono pagate due volte: col fisco quelle erogate dal Ssn, in modo of out pocket per quelle acquistate sul mercato privato. Bisogna rendersi conto che non c’è alternativa al superamento di un universalismo ormai divenuto insostenibile e che si pone l’esigenza di orientare – come peraltro avviene – risorse private alla tutela della salute.
Nel Def vedremo che cosa il Governo intende fare in tema di pensioni. non ci sono molti spazi per aumentare una spesa che, nel corso degli anni, è cresciuta per tanti motivi, ultimo dei quali in ordine di tempo la rivalutazione automatica al costo della vita che ha portato a un incremento della spesa ancorché i Governi abbiamo provveduto a manipolare le aliquote. Nel 2023 la spesa per pensioni è aumentata del 6,3%, arrivando a quota 269,6 miliardi di euro. In crescita – per effetto dei discreti andamenti del mercato del lavoro, disconosciuti ma reali – anche le entrate contributive, ma del 4,4%, salite a 214,6 miliardi. L’incremento della spesa è stato causato soprattutto dall’adeguamento degli assegni all’inflazione, che l’anno scorso ha toccato l’8,1%.
I dati sono contenuti nella Relazione sui flussi di cassa e l’andamento produttivo del 2023 diffusa dall’Inps. Ben 38,6 miliardi sono stati spesi per prestazioni assistenziali e ammortizzatori sociali (Assegno unico, Naspi, ecc.), con un aumento del 10,1%. Il numero di pensioni in pagamento è arrivato a 17,8 milioni mentre quello delle prestazioni d’invalidità a 3,6 milioni. Rilevanti progressi sono stati compiuti nel recupero dell’evasione contributiva: da 1,7 miliardi nel 2022 a 2,4 miliardi nel 2023 (+39,2%).
Insieme alla Relazione sulla attività sono stati pubblicati anche i dati periodici del Coordinamento Statistico Attuariale. Nell’indicazione dei trattamenti in vigore il 1° gennaio 2024 sono escluse – come spesso succede – le pensioni della Gestione Dipendenti Pubblici, disponibili in un osservatorio statistico dedicato (ma non aggiornato) e l’ex-Inpgi. Per questo motivo i dati possono non corrispondere con quelli della suddetta Relazione. L’importo complessivo annuo è pari a 248,7 miliardi di euro di cui 222,8 miliardi sostenuti dalle gestioni previdenziali e 25,9 miliardi da quelle assistenziali. Il 47,1% delle pensioni è in carico alle gestioni dei dipendenti privati delle quali quella di maggior rilievo è il Fondo Pensioni Lavoratori Dipendenti che gestisce il 44,5% del complesso delle pensioni erogate e il 57,8% degli importi in pagamento. Le gestioni dei lavoratori autonomi erogano il 28,3% delle pensioni per un importo in pagamento del 24,7%, mentre le gestioni assistenziali erogano il 23,3% delle prestazioni con un importo in pagamento pari al 10,4% del totale.
Nel 2023 sono state liquidate 1.364.686 pensioni delle quali il 48,6% di natura assistenziale. Gli importi annualizzati, stanziati per le nuove liquidate del 2023 ammontano a 14,3 miliardi di euro, che rappresentano circa il 5,8% dell’importo complessivo annuo in pagamento al 1° gennaio 2024.
Anche dall’analisi per categoria di pensione emergono i consueti andamenti: le prestazioni di tipo previdenziale sono costituite per il 69,1% da pensioni della categoria vecchiaia di cui poco più della metà (57,3%) erogate a soggetti di sesso maschile, per il 5,0% da pensioni della categoria invalidità previdenziale di cui il 57,0% erogato a maschi e per il 25,9% da pensioni della categoria Superstiti che presentano un tasso di mascolinità pari al 12,5%. Analizzando le sottocategorie si osserva che circa il 73,8% delle pensioni di anzianità/anticipate sono erogate a soggetti di sesso maschile, mentre tale percentuale si abbassa al 38,1% per le pensioni della sottocategoria vecchiaia. Anche nell’invalidità previdenziale c’è una distinzione per genere nelle sottocategorie; infatti le due tipologie di prestazione istituite dalla legge 222/84 presentano una preponderanza del genere maschile e precisamente il 64,5% per l’assegno di invalidità e il 68,7% per la pensione di inabilità; mentre le pensioni di invalidità decorrenti prima della suddetta legge avevano un tasso di mascolinità del 32,2%, dovuto naturalmente all’età elevata dei titolari di queste prestazioni e alla maggiore longevità delle donne È comprensibile che queste ripartizioni rispecchino i trend di genere sul mercato del lavoro.
Le prestazioni di tipo assistenziale sono costituite per il 20,4% da pensioni e assegni sociali di cui il 37,9% erogate a soggetti di sesso maschile, il restante 79,6% delle prestazioni sono erogate a invalidi civili sotto forma di pensione e/o indennità, di queste ultime l’indice di mascolinità è del 42,0%. Analizzando le sottocategorie si osserva che il 42,7% di pensioni e assegni sociali hanno avuto origine da una pensione di invalidità civile; ne deriva che le prestazioni legate all’invalidità sono 3.658.611 e costituiscono l’88,3% del complesso delle prestazioni assistenziali. La prestazione di maggior rilievo è l’indennità di accompagnamento per invalidi totali che rappresenta il 45,5% della totalità delle prestazioni e costituisce quasi la metà (46,5%) dell’importo complessivo annuo in pagamento.
Si osserva che le prestazioni di tipo assistenziale presentano un tasso di mascolinità costantemente inferiore al 50%; questo fenomeno può essere attribuito a una maggiore presenza delle donne nelle classi di età più avanzata (con maggior rischio di invalidità) insieme a una maggiore esposizione alla povertà (molte donne in età avanzata non hanno avuto versamenti sufficienti per la maturazione di una prestazione previdenziale). Fanno infatti eccezione le indennità di frequenza ai minori, le indennità di comunicazione e le pensioni agli invalidi totali che vengono erogate a soggetti con meno di 65 anni.
Dall’analisi della distribuzione territoriale emerge che l’area geografica che registra la percentuale più alta di prestazioni pensionistiche al 1° gennaio 2024 è l’Italia settentrionale con il 48,0%, al Centro viene erogato il 19,3% delle pensioni, mentre in Italia meridionale e nelle Isole il 30,8%; il restante 2,0% (346.495 pensioni) viene erogato a soggetti residenti all’estero.
Relativamente alla distribuzione per classi di importo mensile delle pensioni (nota bene: pensioni e non pensionati), si osserva una forte concentrazione nelle classi basse. Infatti, il 53,7% delle pensioni ha un importo inferiore a 750,00 euro. Questa percentuale, che per le donne raggiunge il 64,7%, costituisce solo una misura indicativa della “povertà”, per il fatto che molti pensionati sono titolari di più prestazioni pensionistiche o comunque di altri redditi. A tal fine, si evidenzia che delle 9.543.973 pensioni con importo inferiore a 750 euro, solo il 43,9% (4.193.239) beneficia di prestazioni legate a requisiti reddituali bassi, quali integrazione al minimo, maggiorazioni sociali, pensioni e assegni sociali e pensioni di invalidità civile. In tale contesto il divario tra i due sessi è accentuato; infatti, per gli uomini la percentuale di prestazioni con importo inferiore a 750 euro scende al 40,0% e se si analizza la situazione della categoria vecchiaia, si osserva che questa percentuale scende al 17,0% e di queste solo il 20,2% è costituito da pensioni in possesso dei requisiti a sostegno del reddito. Sempre per i maschi, si osserva che il 46,7% delle pensioni di vecchiaia è di importo compreso fra 1.500 e 3.000 euro.
Di fronte a questi scenari – senza pretendere di anticipare Il Def – c’è da ritenere che anche nel 2024 si raschierà il fondo del barile delle soluzioni ponte. Almeno fino a quando ci si accorgerà che non esiste un’altra sponda diversa dalla riforma Fornero.
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