RIFORMA PENSIONI E QUOTA 100. Durante le mie prime esperienze sindacali nei metalmeccanici mi capitò, in occasione di uno sciopero nazionale, di fare il picchetto (per modo di dire, visto che ero da solo) davanti a una fabbrica chiusa. Si trattava di un’azienda bolognese “difficile” dove le astensioni dal lavoro di solito raccoglievano poche adesioni. Quella mattina, recatomi nei pressi della fabbrica di buon ora, dovetti constatare che non veniva nessuno al lavoro. La mia meraviglia fu presto chiarita: per evitare dei problemi il padrone aveva disposto la non apertura dei cancelli, lasciando a casa il personale. A Capitan Salvini capita un analogo infortunio senza che nessuno l’avvisi. Basterebbe ricordargli che non c’è bisogno di erigere barricate in difesa di quota 100, perché la roccaforte del leghismo pensionistico è destinata a cadere da sola alla fine dell’anno prossimo, avendo il Governo giallo-verde disposto che si tratta di una deroga di carattere sperimentale, giunta al termine la quale si tornerà ad applicare “più forte e gagliarda di prima” la disciplina della riforma Fornero con tanto di “scalone” appresso, giacché i soggetti che non potranno avvalersi dei requisiti previsti (e bloccati fino a tutto il 2026) per la pensione anticipata ordinaria e dovranno andare il pensione di vecchiaia passeranno di botto da 62 a 67 anni.



Nella narrazione leghista (che non è troppo diversa da quella delle confederazioni sindacali) si affronta, come prospettiva, solo un corno del problema del pensionamento: quello anticipato con 41 anni di versamenti (si tenga conto che adesso sono previsti 42 anni e dieci mesi se uomo, un anno in meno se donna). Mentre resta nell’ombra il trattamento di vecchiaia (che dovrebbe essere il perno del sistema). È vero che in Italia vi sono state intere generazioni di lavoratori che hanno usufruito del pensionamento di anzianità (un istituto che esiste in quasi tutti i Paesi europei, ma non nel numero di adesioni che si riscontrano in Italia, peraltro senza le penalizzazioni economiche altrove previste), mentre usufruiscono del trattamento di vecchiaia in prevalenza le donne e i settori deboli dell’occupazione, ma guardando al mercato del lavoro di oggi e di domani sarà sempre più difficile che i lavoratori accumulino consistenti anzianità contributive, per cui il requisito anagrafico acquisterà sempre più una maggiore centralità.



Inoltre, più si va avanti, più crescono le pensioni col sistema “misto” (che è divenuto regola generale pro rata a partire dal 2012) e cominceranno a essere liquidate pensioni solo contributive. E tutti sappiamo (meno Salvini) che in questo calcolo è progressivamente più elevato il coefficiente di trasformazione in rapporto all’età del pensionamento. Tanto che, per coloro a cui si applicherà soltanto il calcolo contributivo. è previsto dalla riforma Fornero un sistema di flessibilità da leccarsi i baffi. Inoltre, non è vero che a fruire del trattamento di anzianità siano stati, in questi decenni, i lavoratori più svantaggiati. Infatti, i trattamenti che maggiormente hanno tratto beneficio dalla “rendita di posizione” del sistema retributivo non sono gli assegni più alti, ma quelli di livello intermedio e, segnatamente, acquisiti mediante il pensionamento anticipato di anzianità (ovvero le prestazioni erogate a persone con un’età inferiore a 60 anni e quindi titolari di un assegno percepito per un periodo più lungo).



“Questi dati – si veda uno studio di Fabrizio e Stefano Patriarca su LaVoceInfo – evidenziano una situazione di grande iniquità distributiva nella quale lo Stato trasferisce risorse ingenti per sostenere le pensioni più opulente e godute in età anteriori a 60 anni. Si è osservato da alcune parti – proseguono gli autori – che le pensioni di anzianità sarebbero state principalmente la ‘compensazione’ al lavoro operaio e precoce. Non è così: nel milione di persone circa che è andato in pensione di anzianità, tra il 2008 e il 2012, compresi i dipendenti pubblici e gli autonomi, le pensioni inferiori ai 1.500 euro mensili,  che comprendono verosimilmente quelle degli operai, sono solo il 18 per cento, e hanno complessivamente il 10 per cento della spesa pensionistica”.

L’altra smentita sta nel rapporto tra gli esodi tramite quota 100 e la nuova occupazione. Come altre volte, facciamo riferimento a un Focus contenuto nel Rapporto della Corte dei Conti sul coordinamento della finanza pubblica del 2020, alla ricerca di “cosa sia successo nei mercati del lavoro dove le persone hanno aderito al pensionamento anticipato”. I lettori vi troveranno delle sorprese. I dati disponibili – avverte la Corte – sono parziali, quindi ci si avvale di stime necessariamente preliminari per mettere in relazione le domande di Quota 100 con le caratteristiche dei sistemi economici territoriali. I risultati consentono soprattutto di affermare che le domande sono state più alte dove è più debole il mercato del lavoro (correlazione negativa con il tasso di attività). Si sono segnalate, al contempo, molte altre relazioni con cruciali variabili macroeconomiche che, tuttavia, allo stato del patrimonio informativo di dati a livello provinciale, appaiono al momento statisticamente meno robuste.

Quanto alla distribuzione territoriale delle adesioni a Quota 100: dall’analisi della provenienza delle domande, emerge come a livello di macroarea vi sia una disparità relativamente alta, con una maggiore adesione – contrariamente a quanto si riteneva – a Quota 100 al Sud, meno al Centro e, da ultimo, al Nord. In assoluto, le domande inviate dal Mezzogiorno sono 75.699, il 36,9 per cento del totale, con un peso relativamente superiore se paragonato all’incidenza relativa della popolazione e degli occupati. Più nello specifico, se rapportati al totale degli occupati, i lavoratori che hanno aderito sono l’1,23 per cento nel Mezzogiorno, lo 0,9 per cento al Centro e lo 0,7 per cento nel Nord-Ovest e Nord-Est. Se invece del totale degli occupati consideriamo la classe di riferimento (62-66 anni), l’incidenza delle domande va dall’8,9 per cento del Nord al 13,2 per cento del Mezzogiorno.