Pensioni e riforma pensioni: nei giorni scorsi l’Ocse ha colpito ancora. L’organizzazione di cui fanno parte i Paesi industrializzati nel capitolo riguardante l’Italia del rapporto annuale sui sistemi previdenziali, “Pensions at a Glance 2019”, ha scritto che sulle pensioni si dovrebbe “dare priorità all’aumento dell’effettiva età di ritiro”, e ciò comporta “la necessità di limitare i sussidi ai pensionamenti anticipati e di attuare adeguatamente il collegamento dell’età di ritiro alla speranza di vita”. Com’era prevedibile, i media hanno fatto finta di non capire che l’Ocse parlava di “età effettiva del ritiro” e hanno subito immaginato che vi fosse l’intenzione di innalzare di nuovo i requisiti dell’età legale.



Quando non si vuole (o non si riesce) capire non è facile spiegare all’opinione pubblica che, per una serie di circostanza, l’età effettiva alla decorrenza del trattamento (se il requisito anagrafico è richiesto) è in genere inferiore al limite legale. Inoltre, se si fa una mediata dell’età riguardante le principali tipologie, si scopre che da noi, l’obiettivo dei 67 anni è solo teorico se si considerano le pensioni nel suo insieme. Tuttavia coloro che sono costretti dalla loro storia lavorativa (soprattutto le lavoratrici) ad andare in quiescenza per vecchiaia, sono ormai prossimi a raggiungere quel requisito anche perché nel loro caso – alla faccia dell’equità – non è stato previsto – come per le pensioni anticipate – il congelamento, fino a tutto il 2026, dell’incremento automatico in rapporto alle dinamiche dell’attesa di vita. Ovviamente l’Ocse aveva ragione e soprattutto voleva raccomandare di non proseguire ulteriormente sulla strada della demolizione della riforma Fornero (ricordiamo che il ministro Catalfo si accingerà a questa impresa incontrando i sindacati).



Se ci è consentito, anche il Centro Studi di Itinerari previdenziali, presieduto da Alberto Brambilla, nel suo recente Sesto Rapporto sull’andamento della spesa pensionistica mette in evidenza i medesimi dati contenuti nel documento Ocse. “Spesso i nostri concittadini si lamentano perché le età per andare in pensione sono più elevate che in passato e aumentano ogni due anni; i motivi sono essenzialmente due: aumenta la longevità dei pensionati e si deve mantenere il sistema in equilibrio per garantire a quelli che oggi con i loro contributi (giovani in testa) consentono il pagamento delle pensioni che quando verrà il loro turno il sistema funzionerà ancora e anche per loro ci saranno le pensioni. Senza legare l’età di pensione alla speranza di vita i rischi sono quelli che emergono dalle durate delle pensioni erogate molti anni fa e ancor oggi in pagamento; schiere di lavoratori mandati in quiescenza in età giovani in seguito a norme che tra il 1965 e il 1990 hanno permesso le baby pensioni nel pubblico impiego, i prepensionamenti, le pensioni di anzianità prima dei 50 anni e permissivi requisiti per ottenere le prestazioni di invalidità e inabilità. Ci vorranno ancora molti anni per ridurre queste anomalie che appesantiscono il bilancio del welfare. (…..) Al gennaio 2018 presso l’Inps, comprese le prestazioni ex Inpdap relative ai dipendenti pubblici (è escluso solo l’Enpals), risultano in pagamento ben 758.372 pensioni previdenziali con durata da 37 anni e più relative a uomini e donne andati in pensione nel lontano 1980 o ancor prima. In dettaglio si tratta di 683.392 prestazioni Ivs fruite da lavoratori dipendenti e autonomi (artigiani, commercianti e agricoli), di cui 546.726 a donne (80%) e 136.666 a maschi. Per i pubblici si tratta di 74.980 prestazioni di cui 49.510 a donne (66%) e 25.470 a uomini (34%).



Ma a che età sono andati in pensione nei lontani 1979/80? Per i maschi ancora viventi del settore privato le età del pensionamento sono state: 53,1 anni per la pensione di anzianità, 56,3 per la vecchiaia, 50,8 per i prepensionamenti, 41,5 per le invalidità e 30,7 per le prestazioni ai superstiti. È opportuno ricordare – prosegue il Rapporto – che i lavoratori andati in pensione 37 anni fa e oltre in età più anziane sono deceduti e le loro età più elevate non entrano a far parte dell’età media. Questo consente oggi di far emergere le età medie possedute nel 1980 e anni precedenti dai neo pensionati più giovani. Oggi le età possedute dalla generazione di lavoratori andati in pensione nel 2017 (durata 0 anni) sono più composite e reali in quanto questa generazione di pensionati è quasi tutta ancora vivente all’1/1/2018; sono rispettivamente: 61,3 (anzianità); 67,1; 62,4 (vecchiaia); 54,5; 76,9 (quasi 47 anni in più). Per le donne 50,1; 55,4; 51,6; 44,3; 40,7 che oggi sono diventate 60,2; 65,4; 63,6; 52,5; 73,8.

Solo come annotazione si consideri che oggi l’aspettativa di vita per uomini e donne a 65 anni di età è pari, rispettivamente, a 19 anni per i maschi (quindi 84 anni) e a 22 anni e 2 mesi per le donne (87 anni e 2 mesi). La durata media delle prestazioni erogate dal 1980 o prima è di circa 38 anni per il settore privato è di 41 anni per i maschi e 41,5 per le femmine per il settore pubblico. Considerando che ad oggi per un 65enne la durata media della prestazione pensionistica (valore attuale medio per maschi e femmine della prestazione diretta e di reversibilità) si può situare a circa 19 anni, abbiamo attualmente in pagamento 6.004.068 prestazioni Ivs che hanno una durata di 20 anni e più, pari al 35,6% circa del totale delle pensioni Ivs (16,8 milioni); quindi, anche se mascherato da pensione, molto più di un reddito di cittadinanza. Le donne, più longeve, fanno la parte del leone”.

Tutto qua. Per capire come stanno le cose basterebbe solo qualche lettura in più (meno televisione) e un po’ di buona volontà.