Il rapporto di attività della Covip per il 2021 conferma l’oraziana “aurea mediocritas” che ormai è divenuta la caratteristica del sistema di previdenza privata a capitalizzazione in Italia dopo trent’anni dalla prima legge che regolò la materia (dlgs n.124/1993). La platea delle adesioni si allarga anno dopo anno; le risorse destinate alle prestazioni aumentano; il numero dei fondi preesistenti si riduce attraverso salutari misure di fusione. Nello stesso tempo, però, il settore si sposta sempre più sul versante del risparmio gestito, piuttosto che su quello della complementarietà nei confronti del sistema pensionistico obbligatorio. 



Questo trend emerge dall’osservazioni delle adesioni riscontrate nel 2021 nelle diverse forme di previdenza privata. Gli iscritti alla previdenza complementare alla fine del 2021 sono 8,8 milioni, il 3,9% in più rispetto all’anno precedente. In percentuale delle forze di lavoro, il tasso di copertura si attesta al 34,7%. A tale numero di iscritti corrisponde un totale di posizioni in essere a fine anno di 9,7 milioni, comprendendo anche le posizioni doppie o multiple che fanno capo allo stesso iscritto. Ma passando in rassegna le iscrizioni a ciascuna delle forme previste vengono in evidenza alcune tendenze meritevoli di considerazione.



Le adesioni

Ai fondi negoziali sono iscritti 3,4 milioni di lavoratori, quasi 1,7 milioni aderiscono ai fondi aperti e 3,4 milioni ai PIP “nuovi”; 620.000 sono gli iscritti ai fondi preesistenti. Rispetto al 2020, l’aumento è stato del 5,8% nei fondi negoziali; nelle forme di mercato, rispettivamente, del 6,5% per i fondi aperti e del 2,9% per i PIP “nuovi”. Anche se l’incremento percentuale dei PIP (polizze assicurative individuali a cui viene applicato il medesimo regime dei fondi) è risultato inferiore a quello delle altre tipologie, il fatto che il numero dei sottoscrittori di questi prodotti di natura commerciale (i gestori sono soggetti di mercato) sia lo stesso dei fondi negoziali (includendo anche i circa 322.000 iscritti dei “vecchi” PIP ed escludendo le doppie iscrizioni tra PIP “nuovi” e “vecchi”, il segmento dei piani individuali di tipo assicurativo conta più di 3,7 milioni di aderenti), dimostra che esiste una domanda crescente di previdenza a capitalizzazione che non viene intercettata dalla contrattazione collettiva (il dominus dei fondi negoziali). Tale tendenza è confermata dalle iscrizioni dei lavoratori dipendenti alle diverse forme complementari: quelli iscritti al sistema della previdenza complementare sono 6,2 milioni, il 4,4% in più rispetto al 2020. Alle forme collettive negoziali e preesistenti aderiscono 3,6 milioni di lavoratori dipendenti; in quelle di mercato, 2,2 milioni sono iscritti ai PIP “nuovi” e costituiscono oltre il doppio di quelli iscritti ai fondi aperti (935mila). Merita di essere sottolineato in proposito un aspetto singolare. È noto che la partecipazione delle lavoratrici ai fondi negoziali è penalizzata dalla loro presenza nel mercato del lavoro. Ma lo squilibrio di genere è più marcato nei fondi negoziali dove le donne sono solo il 26,6% che nelle forme di mercato (rispettivamente, le donne rappresentano il 41,8% nei fondi aperti e 46,5% nei PIP). 



Le risorse accumulate, i contributi raccolti 

Le risorse complessivamente accumulate presso le forme pensionistiche complementari sono 213,3 miliardi di euro, il 7,8% in più rispetto all’anno precedente; esse costituiscono il 12% del Pil e al 4,1% delle attività finanziarie delle famiglie italiane. Tra le tipologie di forme pensionistiche, i fondi negoziali concentrano il 30,6% del totale delle risorse, i fondi aperti il 13,6% e i PIP il 24,1% nell’insieme; il peso dei fondi preesistenti è il più elevato, il 31,7% del totale, ancorché in riduzione rispetto alle forme di nuova istituzione. Nel corso del 2021 sono stati incassati contributi per 17,6 miliardi di euro, tornati a crescere su livelli precedenti la pandemia. Ne sono affluiti 5,8 miliardi ai fondi negoziali, in crescita del 5,5% rispetto al 2020; quelli destinati ai fondi aperti e ai PIP, 2,6 e 4,9 miliardi, sono aumentati, rispettivamente, del 12,7 e del 6,8%. 

Le “anime morte”

Un altro indizio della trasformazione genetica della previdenza complementare viene allo scoperto da un elemento negativo: gli abbandoni. Coloro che nel corso dell’anno non hanno effettuato versamenti contributivi sono complessivamente 2,4 milioni, il 27,2% del totale; rispetto al 2020, sono aumentati di 76mila unità. Oltre un milione di individui non versa contributi da almeno cinque anni; per costoro la condizione di non versante ha ormai assunto natura strutturale ed è meno probabile il ripristino di una partecipazione attiva alla previdenza complementare. In sostanza, il montante contributivo accumulato viene considerato come un piccolo risparmio da riscuotere a tempo debito, ma non è sentito come un pezzo della futura pensione. Questa quota di iscritti non versanti di più lungo corso è per il 78% concentrata nei fondi aperti e nei PIP e registra in media 13,6 anni di iscrizione. Il 62% è costituito da uomini; l’età media, 49,6 anni, è superiore a quella generale. Per area geografica, sono sovrarappresentate rispetto alla media le regioni del Sud Italia, 28,1%. Sono non versanti da almeno cinque anni l’8,2% dei dipendenti, il 27,3% degli autonomi e il 24,4% degli altri iscritti. Il 10,5% ha una posizione individuale uguale a zero e un altro 34,8% non supera comunque i 1.000 euro.

Le prestazioni previdenziali

Ci avviciniamo a questo punto alla prova risolutiva per la tesi che abbiamo finora sostenuto: è prevalente la natura del risparmio, grazie alla sproporzione esistente tra la liquidazione del capitale e della rendita e all’utilizzo delle risorse accantonate nella posizione individuale per realizzare operazioni finanziarie che nulla hanno da spartire con la previdenza. Le uscite per la gestione previdenziale totalizzano, nel 2021, 11,4 miliardi di euro, registrando incrementi in tutte le principali voci. Sono state erogate prestazioni pensionistiche in capitale per 5,1 miliardi di euro e in rendita per circa 460 milioni di euro. Nell’anno sono stati corrisposti anche 1,3 miliardi di euro di rendite integrative temporanee anticipate (RITA), per lo più concentrate nei fondi pensione preesistenti. I riscatti ammontano a 2 miliardi di euro; le richieste di anticipazioni, a 2,3 miliardi di euro, per la maggior parte riferite a spese per l’acquisto o ristrutturazione della prima casa di abitazione. Non è difficile capire che, se si usa il montante come un conto corrente, al momento di riscuotere il capitale o la rendita ci si accontenta necessariamente di quanto rimane. 

La ripartizione degli aderenti per età

Qui si tocca con mano il più grave limite del sistema della previdenza privata. Pensato per venire incontro all’adeguatezza dei trattamenti delle giovani generazioni sulle cui spalle era stato caricato l’onere degli effetti delle riforme (e in verità la difesa più ampia possibile delle prerogative delle generazioni del baby boom, adottando a questo scopo fasi di transizione lunghissime), in realtà tutela gli anziani. Per classe di età degli iscritti, solo il 17,8% ha meno di 35 anni mentre il 50,3% appartiene alla fascia di età centrale (35-54 anni) e il 31,9% ha almeno 55 anni. Dal 2017 al 2021 la percentuale della classe più giovane registra una crescita modesta (0,4 punti percentuali) mentre si è assistito a un progressivo spostamento dalle classi di età centrali a favore di quelle più anziane, pari a circa sei punti percentuali. Per effetto di tale evoluzione, l’età media degli iscritti è salita negli ultimi cinque anni da 45,9 a 47 anni; essa è appena più elevata per gli uomini (47,1) rispetto alle donne (46,9). Tra le forme pensionistiche complementari, l’età media è più elevata per i fondi preesistenti (50,7 anni); è in linea con quella di sistema per PIP e fondi negoziali; viceversa, è più bassa nei fondi aperti (44,7 anni) i quali registrano una maggiore presenza di iscritti con meno di 19 anni: il 6,3% del totale.

Il Tfr

Il flusso complessivo di Tfr che nel 2021 è stato generato nel sistema produttivo può essere stimato in circa 28,7 miliardi di euro; di questi, 15,8 miliardi sono rimasti accantonati presso le aziende, 7 miliardi versati alle forme di previdenza complementare e 6 miliardi destinati al Fondo di Tesoreria. Dall’avvio della riforma, su 376,4 miliardi di Tfr, 208,2 miliardi (il 55,3% del totale) sono rimasti in azienda; 86,1 miliardi (il 22,9% del totale) sono confluiti nel Fondo di Tesoreria. La parte destinata alla previdenza complementare è stata di 82,1 miliardi di euro, il 21,8% del totale. I rendimenti aggregati, al netto dei costi di gestione e della fiscalità, sono stati in media positivi per tutte le gestioni; i fondi negoziali hanno reso il 4,9%, i fondi aperti il 6,4%, le gestioni unit linked dei PIP di ramo III l’11% e le gestioni separate di ramo I l’1,3%. Nello stesso periodo, la rivalutazione del Tfr è stata del 3,6%. I fondi quindi hanno vinto la sfida col Tfr, i cui rendimenti sono garantiti dalla legge. 

Una considerazione finale

Dalle analisi della situazione per come emerge dal Rapporto Covip, trovo conferma di un’opinione espressa da tempo. Il Tfr è stato individuato come la fonte principale di finanziamento della previdenza complementare. È una quota consistente di retribuzione differita (circa il 7%) che viene resa disponibile (anziché allocata nei bilanci delle aziende) ma che non altera, più di tanto se non in termini di cassa, il costo del lavoro. Ma come la mettiamo con i titolari di rapporti diversi dal lavoro subordinato? Nella riforma Fornero era contenuta – accompagnata da tutte le cautele del caso – una proposta interessante: la possibilità di effettuare un’operazione in opting out ovvero di indirizzare, volontariamente, una quota prevista per la contribuzione obbligatoria, al finanziamento della previdenza privata. Nel sistema contributivo il montante è rivalutato sulla base del Pil che a volte ci ha lasciato un po’ in braghe di tela. Non è impossibile che sui mercati finanziari si ottengano rendimenti superiori. Com’è avvenuto nel 2021, anche rispetto allo stesso Tfr. 

Certo ci sarebbe un trattamento pensionistico pubblico più basso, che potrebbe essere compensato da una quota a capitalizzazione più elevata. L’operazione non è affatto semplice e presenterebbe dei problemi di copertura dei costi. Ma potrebbe essere una soluzione interessante e più flessibile soprattutto per i giovani, in regime contributivo e per quelli i cui rapporti di lavoro non prevedono l’erogazione del Tfr. Prendiamo il caso di un collaboratore a partita Iva, magari giovane, che deve sobbarcarsi da solo il 25% dell’aliquota della Gestione separata (certo potrebbe scaricare il 4% sul committente), qualora intendesse fare un versamento adeguato per un fondo aperto, sempre con risorse provenienti dal suo reddito, forse si domanderebbe se ne vale la pena, visto che si deve pur vivere anche prima di andare in pensione. 

In sostanza, per lavoratori non standard è il peso economico della previdenza obbligatoria che scoraggia l’adesione a quella complementare, soprattutto se vengono ridimensionati i vantaggi fiscali, come è avvenuto da noi, senza che nessuno si ponga il problema di ripristinare ritenute fiscali sui rendimenti più congrui rispetto alle finalità della previdenza complementare.

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