Sembra che le promesse fatte dalla Premier Giorgia Meloni alla Camera in occasione del discorso programmatico del suo Governo in ambito previdenziale saranno disattese. La presidente del Consiglio aveva affermato che per mancanza di tempo e soprattutto perché la maggior parte delle risorse sarebbero state destinate a ristorare i costi energetici di famiglie e imprese, per quest’anno sarebbero stati rinnovati solamente gli istituti in scadenza e il prossimo anno sarebbe stata fatta quella riforma previdenziale complessiva che tutti i cittadini italiani aspettano. Ma se andiamo a vedere il testo del ddl presentato alla Camera, ovviamente passibile di modifiche, sembra che questo nuovo Governo sia partito con il piede sbagliato.
Dei tre istituti in scadenza alla fine del 2022, infatti, vale a dire Ape Sociale, Opzione Donna e “Quota 102“, solamente il primo verrà confermato nella sua interezza, mentre gli altri due subiranno delle modifiche. La “Quota 102” in scadenza (38 anni di contributi sommati a 64 anni di età) verrebbe portata a “Quota 103” (41 anni di contributi + 62 anni di età) peggiorando la situazione preesistente e istituendo anche il paletto che la rendita non potrà superare la soglia di cinque volte il trattamento minimo (circa 2.100 euro netti al mese) fino al raggiungimento dei requisiti “Fornero”.
Per Opzione Donna il pensionamento sarebbe possibile solamente alle donne che entro fine anno avranno maturato un’anzianità contributiva di almeno 35 anni e un’età anagrafica di sessanta anni, ridotta di un anno per ogni figlio fino a un massimo di due, e che assistano un convivente con handicap grave da almeno sei mesi, oppure siano loro stesse dichiarate invalide almeno al 74% o ancora siano state licenziate o siano dipendenti da imprese dichiarate in stato di crisi.
In pratica quella che era un’opzione di libera scelta che una donna può o meno fare anche rinunciando a una cospicua parte economica, relegherebbe l’istituto limitandolo solo a categorie svantaggiate. Ora sembra che dopo le proteste da parte dei partiti dell’opposizione, dei sindacati, ma soprattutto di milioni di donne che vedrebbero peggiorata una norma che esiste fin dal 2004 il Governo faccia una parziale marcia indietro forse togliendo la parte relativa ai figli, ma, sicuramente, l’Esecutivo sta dimostrando poca visione. Proprio perché il prossimo anno è programmata la nuova riforma previdenziale era logico e intelligente per quest’anno continuare con le regole dell’anno scorso in attesa di dare un nuovo assetto a tutto l’ambito previdenziale.
Altra norma che fa storcere il naso, in questo caso a chi è già pensionato, è la mancata indicizzazione piena delle pensioni per effetto dell’inflazione. Sappiamo benissimo che il Governo nel solo 2023 avrebbe dovuto trovare 23 miliardi per applicare questa norma ma tagliarla già a pensioni inferiori a 1.700 euro nette al mese ritengo sia troppo. Si sarebbe ottenuto il medesimo risultato attuando, per esempio, un’indicizzazione piena fino a 2.000 euro netti mensili, all’80% fino a 2.500 euro netti mensili, scendendo poi al 20% per pensioni oltre i 3.000 euro e al 5% per quelle oltre i 5.000 euro netti mensili. In questo modo si darebbe un po’ di ossigeno a quella classe media che è il motore dei consumi della nostra economia, che tutti affermano di tutelare, ma che di fatto risulta sempre la classe più colpita.
Ora, anche a causa di un voto effettuato in pieno autunno, sarà una corsa contro il tempo per approvare la Legge di bilancio entro il 31 dicembre ed evitare l’esercizio provvisorio. Come ormai purtroppo succede da troppi anni si adopererà il voto di fiducia che al Senato non permetterà alcuna discussione. Tutto in sostanza si deciderà nelle Commissioni con emendamenti contingentati e decisi a tavolino dai capigruppo delle forze politiche. Lo diciamo da sempre, ma speriamo veramente che questo sia l’ultimo anno di operare in questo modo da parte delle forze politiche.
Quello che auspichiamo è che immediatamente all’inizio dell’anno si cominci a realizzare, di concerto con le forze sociali e con un iter autonomo in Parlamento, quella legge equa e strutturale che i cittadini italiani aspettano da troppi anni mandando definitivamente in soffitta le quote e concedendo un’ampia flessibilità in uscita a chi lo desidera.
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