Neppure il caldo torrido degli ultimi giorni e quello che si annuncia nei prossimi ha dissuaso il sottosegretario Claudio Durigon dall’intessere danze intorno al totem della Lega in materia di pensioni: Quota 41. Un quotidiano domenica anticipava che, dopo il fallimento di Quota 103 (nel senso che vi hanno aderito alcune migliaia di lavoratori e che sono state accolte solo 14mila domande), al ministero del Lavoro si sta lavorando sulla possibilità di andare in quiescenza dopo aver maturato 41 anni di contributi, a prescindere dall’età, a patto però di sottoporre il relativo trattamento al calcolo interamente contributivo.



Il quotidiano stesso metteva in evidenza la stravaganza di una siffatta misura, se si tiene conto che è prevista (fino a tutto il 2026) la possibilità di avvalersi del pensionamento anticipato, a qualunque età, facendo valere 42 anni e 10 mesi se uomini, un anno in meno se donne. Non si capisce se abbia un senso compiuto anticipare a 41 anni l’esodo a costo di subire una decurtazione sull’importo della pensione ragguagliata all’arco di tempo regolato dal calcolo retributivo. Poi è bene non dimenticare che da tempo è divenuta strutturale la via d’uscita – dopo 41 anni di contribuzione – a favore dei c.d. precoci ovvero coloro che possono disporre di 12 mesi di contribuzione prima dei 19 anni di età. Certo, sono richieste delle causalità di carattere lavorativo, famigliare e personale, che sono le medesime previste per usufruire di altre prestazioni come l’Ape sociale. Riassumendo, c’è il rischio di mettere in imbarazzo le persone davanti a un vero e proprio labirinto di accesso al pensionamento anticipato.



Facciamo il caso del signor Mario Rossi che – da bravo baby boomer – ha iniziato a lavorare appena finiti gli studi. Dopo aver accumulato 41 anni di contribuzione versata o figurativa si trova a dover scegliere. Se svolge una delle 200 mansioni definite pesanti o disagiate oppure se deve assistere una nonna invalida (sono esempi delle fattispecie previste) può fare domanda di pensione consapevole che gli sarà erogato ciò che gli spetta. Se invece non entra nel novero dei “quarantunisti” potrebbe avvalersi – una volta che fossero stabiliti – dei 41 anni penalizzati di cui si è parlato, sempre che non faccia lo sforzo di lavorare ancora un anno e 10 mesi. Qualcuno a questo punto potrebbe sostenere che la sua condizione personale non glielo permette; ma in questo caso è quasi impossibile che non riesca a rientrare nelle casistiche previste per i “quarantunisti”.



Sul tema è intervenuto anche Tommaso Nannicini con un ragionamento di carattere più sistematico che operativo. «Se la flessibilità è una necessità (…) è giusto che lo Stato finanzi un’indennità ponte». È il caso, appunto, dell’Ape sociale, che viene riconosciuta a fronte delle medesime causalità previste per i c.d. precoci “quarantunisti”. È una considerazione importante questa, che smaschera anche le preoccupazioni strumentali per il c.d. scalone (da 64 a 67 anni) che verrebbe a crearsi con il rientro nei canoni della riforma Fornero. «Se invece è una preferenza – continua Nannicini – la flessibilità si paga. In che modo? Riequilibrando una disparità che esiste tra pre-1996 e post: si esce tutti allo stesso modo, con l’assegno calcolato in base ai contributi versati. Una sorta di Opzione Tutti».

Nannicini riconoscerà che la sua proposta non merita solo un approfondimento, ma richiede di essere completata con l’indicazione dei requisiti previsti, sia anagrafici che contributivi. Anche perché i trattamenti pensionistici non devono rispondere soltanto al criterio della sostenibilità, ma anche a quello dell’adeguatezza. Non è una buona politica – soprattutto alla luce dei gravi squilibri demografici che stanno creando problemi al mercato del lavoro sul versante dell’offerta – mandare in quiescenza delle persone ancora in grado di lavorare con dei trattamenti inadeguati solo perché se li sono scelti loro anticipando l’età di decorrenza della pensione.

Attualmente i limiti di età previsti per Opzione donna (anche dopo le modifiche apportate nella Legge di bilancio) sono troppo bassi. Il calcolo attuariale del contributivo, ragguagliato, da un lato, ai contributi versati, dall’altro all’attesa di vita, data in crescita, finirebbe per penalizzare l’assegno, creando così il paradosso di pensionati poco più che sessantenni che a 80 anni sono dei morti di fame, proprio quando hanno più bisogno di assistenza.

Poi non si possono fare riforme con la pretesa di essere strutturali sulla base delle esigenze di chi andrà in quiescenza nei prossimi anni ovvero di quelle generazioni numerose alla nascita, occupate stabilmente per lunghi decenni, che si presenteranno numerosi all’appuntamento con la pensioni e a un’età che consentirà di riscuotere l’assegno per 20-25 anni, mentre chiamate a contribuire saranno coorti sfregiate dalla denatalità.

Nessun sistema può reggere se aumentano i pensionati e si allunga contemporaneamente l’arco temporale di riscossione dell’assegno, mentre diminuiscono coloro che sono tenuti a finanziare il sistema. Infine, se si osserva la prospettiva per le generazioni future – a fronte di tanti comprensibili motivi – sarà più sostenibile lavorare fino a un’età più elevata, piuttosto che accumulare importanti anzianità di servizio. È comprensibile che quanti hanno in vista la possibilità di varcare l’agognata soglia vedano con preoccupazione un elevato requisito anagrafico. Il giovane che entra oggi nel mercato del lavoro vedrà come una soglia irraggiungibile, se non ad un’età avanzata, i 41 anni di versamenti.

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