Matteo Salvini non deve preoccuparsi. Ha trovato degli alleati, anzi dei garanti. Anche se non dovesse ritornare presto e “con pieni poteri” al governo del Paese, la sua crociata contro la riforma delle pensioni  di cui porta da anni la croce il ministro Elsa Fornero ha trovato dei nuovi campioni: le confederazioni sindacali. Cgil, Cisl e Uil che hanno reso noto, in termini generali, le proposte con cui andranno al confronto con il ministro Nunzia Catalfo e siederanno, con i loro rappresentanti, ai tavoli tecnici che saranno convocati.



Nei giorni scorsi con tutta la stima che porto ad Alberto Brambilla, leggendo le sue proposte in tema di riforma pensioni, stavo già cominciando a preoccuparmi. Adesso, dopo la sortita delle Confederazioni, temo che le cose andranno di male in peggio, per la precaria sostenibilità del sistema pensionistico. A ulteriore conferma del fatto che il populismo politico è parente di quello sindacale. Infatti, è in corso, almeno sul piano del dibattito politico, la classica caduta dalla padella alla brace. Nel confronto con le proposte delle confederazioni sindacali, infatti, pure Alberto Brambilla (a cui si attribuisce il ruolo di esperto della Lega anche se il patron di Itinerari previdenziali ragiona in autonomia sulla base della sua indiscutibile competenza) sembra divenuto un implacabile rigorista.



In recenti articoli e interviste Brambilla ha proposto lo schema seguente: per scongiurare il rischio-scalone, alla fine del 2021, quando avrà termine quota 100, sarebbe necessario un pensionamento agevolato a 64 anni di età, con adeguamento alla speranza di vita e facendo valere 37/38 anni di contributi. Quindi: quota 101 o, più probabilmente, 102 con calcolo interamente “contributivo2 come nel caso di Opzione Donna. Inoltre, sarebbero ammessi nella determinazione dell’anzianità, al massimo, due o tre anni di contribuzione figurativa; sarebbero poi istituiti dei fondi di solidarietà per anticipi fino a 5 anni.



Quanto al trattamento anticipato, secondo Brambilla bisognerebbe bloccare “l’anzianità contributiva a 42 anni e 10 mesi per i maschi e un anno in meno per le femmine, eliminando l’adeguamento alla speranza di vita”, con sconti contributivi per le madri pari a 8 mesi per ogni figlio, fino a un massimo di tre anni, e una riduzione di un quarto di anno per ogni anno lavorato prima dei 20 anni per i precoci.

Perché il blocco – mi sono chiesto – deve valere solo per questo istituto? Brambilla lo spiega sostenendo che altrimenti sarebbe come abolire il pensionamento di anzianità, un problema che dovrebbe – sostiene il presidente di Itinerari previdenziali – esaurirsi entro meno di dieci anni. È innegabile, però, che in questa operazione vi sia una particolare attenzione – more solito – per le generazioni del baby boom, che hanno una storia lavorativa lunga e continuativa tale da consentire loro di raggiungere quella soglia contributiva, invero elevata, richiesta per il trattamento anticipato, a una età di poco superiore ai 60 anni. Si vede che ho il vizio di non scegliere mai il male minore.

I dirigenti sindacali sono persone competenti e sono in grado di usare questa loro prerogativa non a casaccio (come fece col dl n.4 del 2019 il Governo Conte 1), ma per sfasciare la riforma in modo scientifico, senza porsi il problema di come finanziare un riordino assai più “generoso” e irresponsabile di quello ereditato dalla passata legislatura, a opera del governo Gentiloni (d’intesa con i sindacati stessi). Pare che anche il Governo si sia allarmato per l’ammontare degli oneri che deriverebbero dall’assunzione delle rivendicazioni sindacali. L’aspetto più discutibile della piattaforma delle confederazioni è quella (una sorta di “mal francese”) di arroccarsi nel contenimento dell’età pensionabile (a dispetto di scenari insostenibili per quanto riguarda la combinazione perversa tra l’aspettativa di vita, l’invecchiamento della popolazione combinato con il crollo della natalità).

La preoccupazione vera dei sindacati sulla riforma pensioni, al di là dei gargarismi sul futuro delle nuove generazioni, resta quella di tutelare i lavoratori (il maschile ha un significato specifico) che sono prossimi ad andare in quiescenza e che, per la loro storia lavorativa, possono disporre di un’anzianità contributiva lunga, stabile e continuativa. In sostanza, se queste proposte saranno accolte, la fuoriuscita dal periodo di sperimentabilità (quota 100 fino a tutto il 2021 e blocco dei requisiti per il trattamento di anzianità a prescindere dall’età anagrafica – 42 anni e 10 mesi per gli uomini un anno in meno per le donne, fino a tutto il 2026) camminerà in retromarcia.