Giudizio insufficiente sul Governo riguardo all’argomento previdenziale per l’anno 2021. Tutte le aspettative che giustamente avevano i lavoratori su una riforma che era ritenuta doverosa sono andate perdute e alla fine di un anno inconcludente si è nuovamente ai nastri di partenza.

In pratica non è successo nulla, o meglio su quello che è successo si può dare un giudizio negativo. L’opportunità che si aveva di fare una riforma alla scadenza di “quota 100” non è stata colta. Il Parlamento per superare lo scalone di cinque anni che si sarebbe formato il 1 gennaio 2022 si è limitato a votare e approvare, nuovamente senza discussione, il testo presentato dal Governo che prevedeva la “quota 102” (64 anni di età + 38 di contributi) creando di fatto uno scalino di tre anni. Questo provvedimento è valido per il solo 2022 e dall’anno 2023 qualora non si intervenisse si ritornerà, in quanto mai abolita, all’odiatissima Legge Fornero.



L’esecutivo aveva promesso che all’inizio del 2022 sarebbero cominciati gli incontri con i sindacati per raggiungere un impianto condiviso di legge previdenziale che potesse superare la Legge Fornero incentrato su tre temi considerati fondamentali quali la flessibilità in uscita, provvedimenti previdenziali particolari da attuare nei confronti di giovani e donne e lo sviluppo della previdenza complementare.



Oggi riprende il confronto, ma il Governo è molto preoccupato dall’aumento vertiginoso dei contagi da Covid in particolare per la variante Omicron che stanno aumentando in maniera esponenziale e che stanno saturando nuovamente gli ospedali. Alcune attività commerciali sono state nuovamente chiuse e il Governo dovrà, inevitabilmente, provvedere a dare dei ristori a queste attività più colpite dalla pandemia.

Oltretutto ed è la cosa più preoccupante, nell’opinione pubblica l’argomento previdenziale non è ai primi posti dei cittadini molto più preoccupati dall’emergenza sanitaria e da quella relativa al mondo del lavoro.



Il Governo, poi comincia a navigare in acque agitate. Il compito che aveva Draghi era quello di far approvare la Legge di bilancio, impostare i progetti del Recovery e risolvere il problema della pandemia puntando tutto sull’efficienza del generale Figliuolo. Ma se nei mesi di settembre od ottobre questi obiettivi sembravano quasi raggiunti adesso sembrano nuovamente allontanarsi e lo stesso Draghi mostra segnali di insofferenza.

SuperMario non vede l’ora di salire al Colle per ricoprire quell’incarico che gli era stato promesso all’inizio del suo mandato, ma si rende conto che più passano i giorni più la situazione si complica. Diventare presidente della Repubblica lo farebbe stare sette anni in una situazione di super partes, al contrario restare a fare il presidente del Consiglio gli darebbe solo grattacapi con i partiti che in vista delle elezioni del 2023 cercheranno di accattivarsi il loro elettorato di riferimento piuttosto che seguire le direttive dell’ex Presidente della Bce.

Questa incertezza sul quadro politico-istituzionale sta allontanando la questione della riforma previdenziale verso uno scenario molto incerto. Lo spettro delle elezioni anticipate che aleggia sugli italiani potrebbe congelare per l’ennesima vota un confronto previdenziale che stenta moltissimo a decollare e che nel 2021 è stato confinato in un angolo.

Le organizzazioni sindacali, dopo lo sciopero generale del mese di dicembre orfano della Cisl, sono in attesa di una convocazione promessa da Draghi e sono alla continua ricerca di un’identità che hanno perso negli ultimi anni e che stanno faticosamente cercando di riacquistare. Un modo sarebbe quello di farsi carico del problema previdenziale riportandolo all’attenzione dell’esecutivo organizzando manifestazioni che possano coinvolgere i lavoratori per ottenere quella riforma previdenziale che ormai non può più essere procrastinata.

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