RIFORMA PENSIONI. Ieri (7 febbraio) doveva essere il “gran giorno” in cui Governo e sindacati (nel loro ruolo politico) avevano concordato di riunirsi per fare il punto sui confronti effettuati sui tavoli tecnici. In verità, da quanto si è appreso, finora più che un dialogo si è svolto un monologo, nel senso che i dirigenti sindacali hanno illustrato sia in termini generali che specifici i singoli argomenti, mentre i rappresentanti dell’esecutivo, fossero ministri o solo sherpa di palazzo Chigi, si sono limitati ad ascoltare, chiedere chiarimenti e rinviare le risposte dopo ulteriori approfondimenti che – sarebbe questa la ragione del rinvio a data da destinarsi – non sono stati ancora compiuti in modo esaustivo.
Le difficoltà del Governo sono evidenti: le richieste dei sindacati non comportano solo oneri importanti, ma riportano il sistema indietro di qualche decennio, mettendo in cattiva luce il Premier e il suo Governo sui mercati e nell’Ue. Non è un mistero che in materia di riforma pensioni l’Italia sia sotto osservazione da quando la compagine giallo-verde ha imposto le note deroghe temporanee (Quota 100 e dintorni) alla disciplina introdotta con la riforma pensioni della Fornero. Pertanto se è possibile giustificare la soluzione contenuta nella Legge di bilancio – Quota 102 per l’anno in corso – come passaggio intermedio prima di tornare a regime (ci si dimentica sempre che restano in vigore per altri anni il blocco dell’adeguamento automatico all’attesa di vita, sia per la vecchiaia che per l’anticipo), nemmeno SuperMario può permettersi di riportare indietro impunemente l’età pensionabile.
Non intendiamo esagerare, ma un’operazione avventata sulla riforma pensioni (dopo l’estensione delle tutele adottate per l’utilizzo dell’Ape sociale) determinerebbe delle valutazioni negative anche per quanto riguarda i finanziamenti del Pnrr (che già sta accumulando problemi per suo conto). Nessuno lo ricorda mai, ma nel Piano è contenuto un impegno che il Governo ha assunto in via pregiudiziale con riguardo alle raccomandazioni dell’Unione: “Attuare pienamente le passate riforme pensionistiche al fine di ridurre il peso delle pensioni di vecchiaia nella spesa pubblica e creare margini per altra spesa sociale e spesa pubblica”. Il Governo da un anno a questa parte ha mostrato di essere in evidente imbarazzo sul tormentone delle pensioni. Per mesi Draghi ha evitato, nei suoi rari interventi, di pronunciare persino la parola maledetta (clamoroso il suo abbandono della riunione durante il primo incontro con i sindacati su questo tema). Poi, di fronte a interlocutori interessati solo alle pensioni e per di più promotori di uno sciopero generale (destinato a trovare posto nel libro nero dei sindacati che lo hanno dichiarato), “più che il dolor potè il digiuno” anche per il Premier, che alla fine ha dovuto – quanto meno – inserire l’argomento nell’agenda e definire con i sindacati un calendario di incontri, finanche a indicare in conferenza stampa i temi che sarebbero stati affrontati.
“I provvedimenti sulla riforma pensioni introdotti nella manovra – ha ricordato Draghi in quell’occasione – sono di natura transitoria”, quindi “che ci fosse bisogno di una riforma più ampia a me pareva normale e per questo il tavolo” con i sindacati “è iniziato. Il mio impegno è quello di mantenere un sistema che sia sostenibile, il vincolo è non rimettere in discussione questa sostenibilità del sistema contributivo”. Poi, proseguendo Draghi ha ricapitolato i titoli delle rivendicazioni di Cgil, Cisl e Uil: “Maggiore flessibilità in uscita; come si riesca a organizzare, problema aperto, un sistema che garantisca un certo livello di pensioni per i giovani e per coloro che hanno attività precaria; cosa si può fare per riprendere la strada sulla previdenza complementare; come si fa a evitare che sia punito” chi una volta in pensione continua a lavorare. Ma in questo elenco di problemi il presidente del Consiglio non ha rinunciato a tracciare un confine invalicabile: la sostenibilità del sistema, una sorta di parola magica che mette in grado chi la esprime di riservarsi il giudizio su quanto viene affrontato, soprattutto se vi sono ricadute sulla finanza pubblica. Ma il nodo va sciolto.
Qualche maligno potrebbe pensare che Draghi avesse tergiversato nella prospettiva di salire al Colle e lasciare ad altri il compito di disinnescare la bomba della riforma pensioni. Siamo dunque al classico “hic Rhodus, hic salta”, in un momento in cui è in corso un cambiamento del ciclo economico che inciderà anche sulle politiche monetarie e di bilancio. Il Governo ha lasciato intendere la sue disponibilità sulla riforma pensioni: per l’anticipo non si torna indietro dai 64 anni (il requisiti anagrafico minimo di Quota 102), ma il calcolo della pensione deve avvenire interamente con il metodo contributivo. Poi resta in lista di attesa una sfilza di altri problemi: che cosa fare dell’adeguamento automatico all’aspettativa di vita; come escogitare un meccanismo di pensione di garanzia; come rafforzare il secondo pilastro anche in funzione del primo. Tutto ciò nell’ultimo anno della legislatura, con i partiti che tra pochi mesi rivolgeranno la loro attenzione alla campagna elettorale. Auguri.
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