RIFORMA PENSIONI. Dopo il Consiglio dei Ministri del 24 aprile, che ha riesaminato il testo messo incautamente in circolazione il giorno precedente, dal Pnrr è stata bandita la parola “pensioni”. In verità non è che il primo estensore del Piano si fosse impegnato molto. Su 319 pagine (ora divenute 335) a un tema che vale circa 17% del Pil e che è oggetto di passioni feroci di milioni di persone, era riservata una laconica frasetta: “In tema di pensioni, la fase transitoria di applicazione della cosiddetta Quota 100 terminerà a fine anno e sarà sostituita da misure mirate a categorie con mansioni logoranti”. Ma per qualche settore della supermaggioranza era troppo.
Lo ha spiegato in una intervista di Valentina Conte di Repubblica il sottosegretario in quota Lega Claudio Durigon, spostato al Mef “a far da palo” nella difesa delle misure (tra cui spiccava quota 100) che aveva contribuito a varare dal Lavoro, ai tempi del Conte-1. “La Lega non intende tornare alla legge Fornero”, ha precisato Durigon, tanto che nella sua bozza del Recovery plan la frase sulle eccezioni solo “per le mansioni logoranti” non c’è. Del resto, ha aggiunto chiarendo l’arcano, “non potrebbe essere altrimenti: la riforma delle pensioni non si fa nel Pnrr. Quota 100 è stata un ristoro all’iniqua legge Fornero. Lo abbiamo detto, in ogni modo, che era una sperimentazione”.
Pertanto neppure la Lega pretende una proroga. “La frase l’avete fatta togliere?”, domanda la giornalista. “Diciamo – risponde diplomaticamente il sottosegretario – che le bozze circolate erano sbagliate, forse un residuo del Recovery di Conte”. In sostanza, un refuso non intercettato, un brano non rimosso da una “manina” maliziosa. Claudio Durigon, poi, ha precisato che occorre pensare “a uno scivolo per le imprese private che dovranno ristrutturare. Con la fine del blocco, si prevedono tra 500mila e un milione di licenziamenti. Il modello è quello del mondo bancario: uscire sei anni prima. Bisogna trovare la formula migliore”.
Ammesso e non concesso che sia corrispondente al vero una tale ecatombe di posti di lavoro, Durigon fa un riferimento esplicito ai fondi di solidarietà, un’idea tenacemente sostenuta da Alberto Brambilla (sarebbe importante che la Lega si facesse consigliare da un esperto di vaglia come il Presidente di Itinerari previdenziali). Ma è proprio il riferimento al modello bancario a mettere in evidenza che soluzioni di questo tipo non sono di facile realizzazione e richiedono tempi medio-lunghi per accumulare le risorse idonee a coprire 6 anni di anticipo del pensionamento.
La linea di condotta della Lega in materia di pensioni è cangiante come un caleidoscopio. L’11 gennaio di quest’anno il gruppo del Carroccio alla Camera (primo firmatario lo stesso Durigon) aveva presentato un pdl (AC 2855) che prevede, all’articolo 2, di mantenere quota 100 solo per i soggetti che svolgono lavori usuranti individuati con i criteri già in uso ai fini dell’accesso all’Ape sociale o alla pensione per i lavoratori precoci. Ciò in quanto – sta scritto nella relazione introduttiva – “al termine del corrente anno 2021 si concluderà la fase sperimentale transitoria che ha accompagnato l’introduzione del criterio di accesso alla pensione anticipata con la regola della cosiddetta quota 100”.
C’è da dire che il concetto di “usuranti” ha un ambito più ristretto e di quello di “logoranti” contenuto nel Pnrr emendato. Non si comprende allora per quali motivi la Lega abbia voluto bandire dal testo del Piano anche un generico riferimento alle pensioni che, oltre a ribadire un orientamento considerato pacifico e condiviso (ovvero che quota 100 dovesse andare a scadenza e uscire di scena) sembrava persino in sintonia con il pdl Durigon. Intanto, nel “va e vieni” di frasi al massimo solo allusive, sta già partendo la campagna terroristica sullo “scalone”. Si dice agli italiani che dovranno andare in pensione a 67 anni. Ciò avverrà solo per coloro che non saranno in grado di avvalersi del pensionamento ordinario di anzianità i cui requisiti resteranno bloccati (almeno così prevedono le norme in vigore) a 42 anni e 10 mesi per gli uomini e un anno in meno per le donne fino a tutto il 2026, a prescindere dalla età anagrafica: un traguardo che, come dimostrano i dati, è stato spesso varcato a un’età inferiore a 62 anni.
Quota 100, poi, non consentiva di andare in quiescenza a 62 anni e basta. Occorreva far valere anche 38 anni di versamenti. Mentre che avesse avuto 40 anni di contribuzione qualche anno in meno dei canonici 62, doveva aspettare di raggiungere quell’età e quindi la sua anzianità contributiva si spostava verso quella richiesta per il trattamento ordinario (non a caso la maggioranza dei “quotacentisti” ha potuto ritirarsi a 64 anni di età e la media dell’anzianità contributiva è stata pari a 41 anni).
Il sottosegretario Durigon nell’intervista pone un problema serio: come gestire gli esuberi quando finirà il blocco dei licenziamenti. È proprio necessario scomodare la prassi dei prepensionamenti quando ci sono, nell’ordinamento, tanti altri strumenti? Il pacchetto Ape, per esempio, che consentirebbe – grazie al recupero dell’Anticipo volontario e all’incentivazione dell’utilizzo dell’Ape aziendale – di risolvere tanti problemi senza sconfinare nel campo minato del sistema pensionistico, riconducendolo a svolgere il ruolo improprio di ammortizzatore sociale. È poi in vigore il c.d. contratto espansione: per chi è a 5 anni dalla pensione, tutte le aziende con più di 250 dipendenti possono pagare 3 anni di buonuscita e lo Stato ci aggiunge 2 anni di Naspi; non basterebbe questo “scivolo aziendale” generalizzato per evitare i licenziamenti di lavoratori anziani e favorire il ricambio?
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