Quando affrontano il tema della previdenza, gli agitatori di professione confondono a bella posta il numero delle pensioni con quello dei pensionati. A forza di insistere ormai in buona parte dell’opinione pubblica la differenza è stata compresa, ma è sempre meglio non mollare la presa. Ci aiuta, una volta di più, il settimo rapporto del Centro Studi di Itinerari professionali. Le pensioni erogate nel 2018 sono state 22.785.711, per una spesa complessiva di oltre 293 miliardi e sulla base di un importo medio annui di 12,8mila euro. I pensionati, in quello stesso anno, risultavano essere poco più di 16 milioni (in diminuzione rispetto all’anno precedente), con un importo medio annuo del reddito pensionistico pari a 18,3mila euro.



La spesa pensionistica e l’importo medio dei trattamenti vengono calcolati anche al netto delle imposte e risultano essere la prima pari 241,8 miliardi, il secondo 15,1mila euro. Il rapporto fornisce i dati ripartiti secondo il livello del reddito pensionistico, assumendo come unità di calcolo l’importo legale della pensione minima (nel 2018 pari a 507,42 euro). Fino a quel livelli (1 volta il minimo) c’erano 7,9 milioni di pensioni erogate a 2.257.655 pensionati, per un importo complessivo annuo di poco meno di 33 miliardi e uno medio di 4mila euro considerando le singole pensioni. L’importo medio per questa coorte di pensionati ammontava invece a 3,7mila euro. Al di sotto dei 1.000 euro i trattamenti erano pari a 14,8 milioni, quello dei pensionati a 6,4 milioni.



Se si osserva inoltre il rapporto tra pensione media e reddito medio, si vede che, dopo una fase in cui il valore è rimasto quasi costante, dal 2008, con l’inizio della crisi, esso è sensibilmente salito Ciò sottolinea il fatto che, mentre il peggioramento della situazione economica ha inciso negativamente sul reddito per occupato, i trattamenti pensionistici hanno continuato la loro dinamica derivante da metodi di calcolo che, incorporando una lunga parte di carriera, sono slegati dall’andamento congiunturale del momento. Un ulteriore elemento di comparazione per valutare il ruolo e la dinamica della spesa previdenziale rispetto alle altre voci della Pubblica amministrazione è individuabile dai dati che indicano come, nella fase iniziale, la quota della spesa pensionistica sul totale della spesa pubblica era ancora al di sotto del 30%, ma aveva un tasso di crescita medio annuo di gran lunga superiore a quello delle altre principali voci di spesa. Dal 1998 al 2007, il peso della spesa pensionistica è in media salito al 32%, ma, grazie ai primi effetti delle riforme, ha cominciato a registrare variazioni più basse rispetto sia alle altre prestazioni sociali che all’insieme della spesa corrente al netto degli interessi passivi.



Negli anni della crisi economica, a fronte di misure di contenimento della spesa per stabilizzare il debito pubblico, l’aumento inerziale della spesa previdenziale ha determinato una situazione diversa in cui pensioni e altre prestazioni sociali sono aumentate più rapidamente rispetto al resto della spesa e, soprattutto, delle retribuzioni pubbliche. Dal 2014, superata la fase acuta della crisi, si è aperto un nuovo scenario. Mentre vi è stata un’accelerazione delle altre spese sociali, la spesa per pensioni è rimasta pressoché allineata alla dinamica della spesa complessiva, con una variazione che è andata poco aldilà di quella delle retribuzioni dei dipendenti pubblici.

La differente dinamica in ogni intervallo temporale delle varie componenti della spesa pubblica non ha spiegazioni semplici. Tuttavia, l’andamento della quota della spesa per pensioni sul totale della spesa pubblica e i tassi di variazioni medi di ogni periodo sembrano indicare che, mentre le misure di politica economica adottate nelle diverse fasi congiunturali si riflettono in modo relativamente rapido sulle le voci di spesa corrente, gli interventi miranti a contenere la crescita della spesa pensionistica hanno soprattutto effetti nel medio/lungo termine, essendo la spesa stessa in larga parte condizionata dal quadro normativo preesistente.

Queste considerazioni contenute nel settimo rapporto sono parecchio significative anche per quanto riguarda la valutazione degli effetti della riforma Fornero del 2011 che rischia di essere “superata” prima ancora di aver dispiegato gli effetti previsti sul contenimento della spesa. La riforma è entrata in campo, all’inizio, sul versante delle deroghe (8 salvaguardie per i cosiddetti esodati). Poi vi sono state apportate alcune correzioni, fino a quando sono state introdotte due poderose uscite di carattere sperimentale (quota 100 e il congelamento fino al 2026 dei requisiti per il pensionamento di anzianità a prescindere dall’età anagrafica) che si avviano – basta seguire i temo del negoziato tra governo e parti sociali – a lasciare un segno di carattere strutturale nell’intero sistema pensionistico.