Come sempre Alberto Brambilla, con la Fondazione Itinerari previdenziali e le sue pubblicazioni, mette in grado i volenterosi – che non si rassegnano a legare l’asino dove vuole padron Luogocomune – a capire quanti misfatti vengono compiuti sulla riforma delle pensioni. Recentemente Brambilla ha dimostrato (almeno è così che abbiamo capito) che, con i provvedimenti ispirati alla c.d. flessibilità del pensionamento, si è dato corso a una babele di età effettive alla decorrenza del pensionamento e a un impiego assai consistente di risorse. Tra il 2017 e il 2018 – scrive Brambilla – i beneficiari dell’Ape sociale (a totale carico dello Stato) che sono andati in pensione con 63 anni di età anagrafica e 30 o 36 anni di contribuzione (diremmo oggi, quota 93 o 99) sono stati 97.000; i precoci (con 41 anni di contribuzione indipendentemente dall’età anagrafica, quindi molti sotto Quota 100) sono stati 74.500, per un totale di oltre 340mila “salvati” in 7 anni e per un costo di circa 30 miliardi (quasi il 25% dei risparmi previsti dalla riforma Fornero).



L’introduzione di Quota 100, nel solo 2019, assieme alla proroga di opzione donna, Ape e precoci, ha prodotto ben 264.765 pensioni con requisiti più favorevoli, escludendo dal computo le 107mila cosiddette anticipate (solo 2 mesi). Insomma, gli “scampati” alla legge Fornero in 8 anni sono stati 604mila su un totale di 16 milioni di pensionati: 75mila l’anno! 



“Si poteva fare meglio?”, si domanda Brambilla, indicando le proposte che lui stesso aveva sostenuto a suo tempo. Purtroppo – lamenta – è prevalsa la fretta di comunicare ai soli fini elettorali la parola magica “Quota 100”, un provvedimento a debito, a spese delle giovani generazioni e con molte pecche: non cancella la riforma Fornero, non risolve la flessibilità in uscita, si disinteressa dei giovani, è solo una misura sperimentale e a tempo (3 anni per Quota 100 e 8 anni per precoci e anticipata) dopodiché si torna a Fornero, non prevede agevolazioni specifiche per lavoratori con problemi di salute, familiari a carico da curare, lavori pesanti, in mobilità o disoccupazione e neppure l’utilizzo dei “fondi di solidarietà” per l’industria, il commercio, l’artigianato e l’agricoltura, (sul modello di quelli per le banche e assicurazioni che hanno permesso di fornire una protezione di 5 anni, con 62 anni di età e 35 di contributi, a oltre 80 mila lavoratori). Solo un “liberi tutti” compresi quelli che ancora potrebbero tranquillamente lavorare, mentre prevede il divieto di cumulo mettendo in panchina – quando va bene  – o a “nero”, molti neo-pensionati; non è servita neppure come staffetta generazionale.



Un giudizio severo, ma giusto e corretto, da parte di uno dei maggiori esperti in materia. Nei suoi scritti Alberto Brambilla ha messo più volte in evidenza la penalizzazione economica correlata all’anticipo dell’età anagrafica nell’ambito del sistema di calcolo sia contributivo che misto (ormai questo è il criterio generale che vale dal 2012 per tutti i pensionati). Nel regime contributivo (sia che riguardi una parte o tutta l’anzianità di servizio) il montante accumulato secondo le regole della riforma Dini del 1995 viene moltiplicato per un coefficiente di trasformazione (o diviso per un divisore) ragguagliato all’età del soggetto al momento della decorrenza della pensione, di cui è previsto – in via amministrativa – l’adeguamento all’aspettativa di vita, crescendo la quale il coefficiente si riduce (per il semplice fatto che il trattamento sarà erogato per più anni). Questo meccanismo non ha nulla a che fare con quell’altro, altrettanto virtuoso, che collega, in aumento, l’età pensionabile o il requisito contributivo (nel caso di pensionamento anticipato/anzianità) in rapporto al trend dell’attesa di vita.

Nella seconda fattispecie, il decreto n. 4 del 2019 ha provveduto a inchiodare, fino a tutto il 2026 , il requisito di 42 anni e 10 mesi per gli uomini e un anno in meno per le donne: una norma che non è stata modificata come del resto quota 100 (la cui sperimentazione cesserà – rebus sic stantibus – alla fine del 2021). È emerso, tuttavia, che non si è bloccato tutto il caravanserraglio; qualche cosa è sfuggito ed entrerà in vigore a partire dal 1° gennaio prossimo.

È stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 147 dell’11 giugno 2020 il decreto del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali del 1° giugno 2020 di revisione triennale dei coefficienti di trasformazione del montante contributivo.

Il confronto con la tabella ora vigente mette in evidenza il ritocco del moltiplicatore del montante contributivo (totale o parziale) che entrerà in vigore dall’anno prossimo.

Sempre che anche in questa occasione non ci sia qualche parlamentare autorevole a cui sia suggerito (da solo non se ne accorgerebbe mai) di imitare l’iniziativa congiunta di Cesare Damiano e Maurizio Sacconi, presidenti delle due Commissioni Lavoro (della Camera il primo, del Senato il secondo) che, verso la fine della XVII legislatura, chiesero di bloccare la revisione dei coefficienti in vista di una ridefinizione della materia, ottenendo il blocco solo per coloro che erano già classificati in altri provvedimenti (Ape sociale, precoci) come esposti a situazioni lavorative o personali di disagio. Staremo a vedere. Intanto l’analogo conteggio non ha determinato variazioni per quanto riguarda la pensione di vecchiaia: l’ età resta ferma a 67 anni.