Una definizione corretta di ciò che il Programma nazionale di riforma (Pnr) prevede per i principali temi del lavoro e del welfare potrebbe essere questa: parva sed apta mihi. In effetti, gli obiettivi vengono indicati in modo sintetico, spesso sommario. E comunque sempre in forma programmatica. Per quanto riguarda gli ammortizzatori sociali, il Governo intende avviare «una ricognizione per definire, compatibilmente con gli obiettivi di finanza pubblica, un intervento organico nel settore. Riguardo agli strumenti di sostegno alla disoccupazione e alla crisi d’impresa, uno degli obiettivi è favorire un migliore utilizzo dei fondi europei in termini di efficacia ed efficienza finanziaria, anche al fine di ridurre le disparità economiche e sociali che caratterizzano le Regioni del Mezzogiorno».
Contrariamente alla diffusa freddezza sul Mes, nel testo (della bozza circolante) il Governo valorizza i 100 miliardi del Sure e non rinuncia a riscuotere la quota che gli spetta, arrivando a ipotizzare l’impiego di queste risorse anche nella sanificazione degli ambienti di lavoro (ma queste misure non potrebbero essere imputate al Mes come spese indirette per la salute?). Si passa poi nel Pnr ad annunciare le intenzioni dell’esecutivo sui punti scomodi del confronto con l’Ue. Come se si trattasse di una nota a margine, Quota 100 viene condotta alla sua naturale scadenza (alla fine del prossimo anno) per fare posto alla valutazione di «scelte in materia alla luce della sostenibilità anche di lungo periodo del sistema previdenziale e del debito pubblico garantendo al contempo il rispetto per l’equità intergenerazionale e il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica».
Parole, parole, parole. Quando mi capita di leggere qualche riferimento a Quota 100 mi viene spontanea una domanda: perché non si fa cenno anche al blocco fino a tutto il 2026 del requisito contributivo (42 anni e 10 mesi per gli uomini e un anno in meno per le donne) che è oneroso quanto la misura “gemella” prevista dal decreto n.4/2019? Vuol dire forse che questa regola è destinata a divenire strutturale e a far parte di quella futura riforma che dovrebbe garantire sostenibilità ed equità intergenerazionale?
Che questa norma esiste ed è destinata a produrre i suoi effetti ancora per anni è ben presente agli osservatori istituzionali. Prendiamo il Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica 2020 della Corte dei Conti, un documento di grande utilità per la completezza dei dati e l’incisività dei rilievi. «I soggetti che hanno usufruito dell’anticipo avendo effettivamente maturato i requisiti minimi di Quota 100 (ovvero 62 anni di età e 38 anni di anzianità contributiva) sono stati poco più di 5 mila, ossia il 3 per cento del totale». Dai dati emerge – sostiene la Corte – che l’uscita anticipata ha attratto principalmente coloro che – per anzianità contributiva – avevano la minima distanza dalla soglia prevista per l’uscita anticipata (42 anni e 10 mesi per gli uomini, 41 e 10 mesi per le donne): circa la metà dei lavoratori uomini è andato in pensione con almeno 41 anni di anzianità; le donne con almeno 40 anni di anzianità risultano il 53 per cento del totale, oltre il 30 per cento ha almeno 41 anni di anzianità».
La lettura dei dati sulle pensioni accolte, disaggregati in base all’età, mostra un generale addensamento sui 63 anni (circa il 27 per cento). I pensionati con Quota 100 con almeno 66 anni di età (e quindi prossimi al pensionamento di vecchiaia (67 anni di età) sono mediamente il 14 per cento del complesso. Escludendo questa fascia, comunque, non si ravvisano particolari picchi o anomalie nella distribuzione dei pensionati. Questo sembra confermare che la discriminante più importante, nell’adesione a Quota 100, sia stata l’anzianità contributiva piuttosto che l’età. Ciò dimostra che il vero problema è – e sembra destinato a rimanere – quello della pensione anticipata di anzianità (i cui requisiti sono bloccati al 2018) a prescindere dall’età pensionabile. In sostanza, se anche venisse a scadenza Quota 100 senza essere rinnovata, ai pensionandi occorrerebbe solo qualche mese di lavoro in più per avvalersi del canale riferito alla sola anzianità contributiva.
Il trend è confermato anche dalla Ragioneria generale dello Stato, che nel rapporto n. 20/2019 ha ribadito, peraltro prima del Covid, che il dispiegarsi dei primi effetti negativi della transizione demografica dovuta al pensionamento delle coorti del baby boom, unitamente alle recenti misure adottate nel DL 4/2019 convertito con L 26/2019 che, per il periodo 2019-2026 prevedono la disapplicazione per il canale di pensionamento anticipato indipendente dall’età anagrafica degli adeguamenti all’aspettativa di vita dei requisiti di anzianità contributiva, sono fattori che agiscono in senso opposto, limitando la riduzione del rapporto tra spesa pensionistica e Pil. Nei quindici anni successivi (2030-2044), il rapporto fra spesa pensionistica e Pil riprende a crescere, dapprima con più intensità e poi in maniera più graduale, fino a raggiungere il picco del 16,1% nel 2044, a causa dell’aumento del numero di pensioni.
Affrontando la questione del Reddito di cittadinanza, il Pnr diventa più discorsivo. Ma la novità c’è: «La politica attiva non deve essere intesa solo come condizionalità per l’erogazione del beneficio economico, quanto come diritto, in capo ai soggetti in condizioni di bisogno, a una presa in carico da parte dei competenti servizi pubblici, in ambito lavorativo o sociale, ai fini del superamento dello stato di bisogno». In sostanza dovrebbe venir meno la corrispettività tra l’erogazione del RdC e l’inserimento nel mercato del lavoro: chi ha bisogno continuerà a percepire il RdC; poi se le politiche attive vengono sviluppate e utilizzate positivamente, bene; altrimenti è lo stesso. In fondo si legittima ciò che è stata la funzione di questo istituto finora. Si accentua l’aspetto di inserimento sociale rispetto a quello lavorativo, rivelatosi illusorio con buona pace dei navigator e dell'”uomo venuto dal Mississippi”.
Nuclei di percettori di Rei e RdC/PdC (fonte: Inps)