RIFORMA PENSIONI E QUOTA 100. Giuseppe Conte ha imparato in fretta e bene la lezione: non dice nulla di nuovo ma lo espone benissimo. Nelle ultime ore è riuscito a fare un figurone, a trovare spazio in tutte le prime pagine dei quotidiani e nelle prime notizie dei tg, ribadendo concetti scontati e presentandoli come una grande svolta riformista. Oddio in questo povero Paese nulla è mai stabilito una volta per tutte. Ma era pacifico che Quota 100 avesse una durata sperimentale di un triennio, trascorso il quale ed esaurita la deroga sarebbero ritornati applicabili – rebus sic stantibus – i requisiti previsti dalla riforma Fornero. Poiché in questo modo si sarebbe determinato – per quanti non fossero in grado di avvalersi del pensionamento ordinario di anzianità con 42 anni e 10 mesi, un anno in meno per le lavoratrici, a prescindere dall’età anagrafica – uno scalone di ben 5 anni (da 62 a 67anni) occorreva porre rimedio agli effetti di una misura sbagliata, uscendo in avanti dalle trappole giallo-verdi che hanno fallito tutti i loro obiettivi. Ed è questo l’oggetto del negoziato (che procede, per fortuna, con l’incedere del gambero) tra il ministro Nunzia Catalfo e le confederazioni sindacali.
In sostanza, nessuno si aspettava una proroga di Quota 100. Lo stesso Matteo Salvini non può continuare a pensare che a lui sia concesso di dire tutto e il suo contrario, a giorni alterni. Se così non fosse, invece di minacciare sfracelli nei confronti di chi vuole ammainare il suo vessillo di liberazione pensionistica, ricorderebbe quanto stava scritto nel c.d. contratto di governo per il cambiamento; ovvero: “Daremo fin da subito la possibilità di uscire dal lavoro quando la somma dell’età e degli anni di contributi del lavoratore è almeno pari a 100, con l’obiettivo di consentire il raggiungimento dell’età pensionabile con 41 anni di anzianità contributiva, tenuto altresì conto dei lavoratori impegnati in mansioni usuranti”. Ecco allora che il destino di quota 100 era segnato fin dalla nascita.
Ciò non vuol dire che ci s’incammini verso un radioso futuro per i conti pubblici, giacché la mitica soglia di Quota 41 non fu adottata da subito perché avrebbe comportato un onere ancora maggiore di quello – pur notevole – derivante dal regime derogatorio. È bene comunque che “i morti seppelliscano i morti” e che l’attenzione di chi ha cuore la stabilità del Paese – già tanto compromessa – si concentri su quanto si sta preparando per il prossimo futuro. Il ministro ha annunciato, alla fine dell’incontro del 16 settembre, che nella Legge di bilancio saranno inserite alcune misure di routine (come la proroga dell’Ape social e di Opzione donna), mentre un disegno di legge delega affronterà l’effettivo superamento della riforma Fornero.
Le posizioni dei sindacati sono note: si tratta di un ritorno a 25 anni or sono e di una liquidazione di tutti i riordini e le riforme (e controriforme) attuate in questo lungo e travagliato arco temporale. In un’intervista a “Pensioni per tutti” Roberto Ghiselli, il Segretario confederale responsabile delle politiche sociali della Cgil ha messo le carte in tavola: “Le nostre principali proposte sono in realtà note ai più e ricomprendono: la possibilità di andare in pensione dopo 62 anni a scelta del lavoratore o con 41 anni di contributi a prescindere dall’età” (abbiamo già ricordato che oggi i requisiti sono pari a 42 anni e 10 mesi per gli uomini e a un anno in meno per le donne fino a tutto il 2026, ndr). Se è questa la prospettiva verrebbe da dire: “Lasciateci Quota 100”.
Ogni tanto, poi, vengono messe in circolazione delle proposte dai natali incerti. L’ultima riguardava il passaggio a Quota 102 (con 64 anni al posto dei 62) e prevedeva una penalizzazione (del 2,5 o 3%) per ogni anno di anticipo prima dei 67. In sostanza, tutto cospira per anticipare il più possibile l’età di pensionamento senza alcun riguardo per l’adeguatezza del trattamento: una logica antistorica, prigioniera del presente e delle esigenze dei baby boomers, incompatibile con la situazione delle generazioni future che entreranno più tardi nel mercato del lavoro e avranno un’attesa di vita più lunga, tanto da considerare normale andare in quiescenza più tardi ma con un assegno più elevato.
Peraltro nel maneggiare questa materia con troppa disinvoltura sarà bene tener conto che la spesa pensionistica è prossima al 17% del Pil; il che significa che parecchie misure che hanno comportato sacrifici in nome di un minore squilibrio del sistema pensionistico sono state buttate nel cestino. Ma il “fine dicitore” Giuseppe Conte aveva un altro asso nella manica: il Governo rivedrà la disciplina del reddito di cittadinanza restituendogli quella funzione di politica attiva del lavoro, dapprima clamorosamente fallita nell’inutilità dei navigator, poi sospesa durante il lockdown, rivelando così l’essenza vera e assistenzialistica del RdC e l’inadeguatezza degli strumenti e delle procedure per proporre almeno tre occasioni di lavoro, in 18 mesi, alle persone in carico.
Importanti inchieste stanno mettendo in evidenza che il RdC non è in grado di cogliere le più importanti condizioni di povertà, ma – ciò che è più grave – ha incoraggiato tante persone a non cercare un lavoro, preferendo arrangiarsi nell’economia sommersa per integrare l’assegno del RdC oppure a rifiutare occupazioni retribuite modestamente. Il Conte 2 sembrerebbe voler ripartire da dove è fallito il Conte 1: la funzione promozionale dei Centri per l’impiego. Il fatto è che nulla è mutato in meglio, nonostante che al rafforzamento di queste strutture fossero stati destinati 2 miliardi dello stanziamento complessivo per il RdC. Per di più ci troviamo in eredità un battaglione di navigator, alla cui utilizzazione hanno pensato in tanti e in servizi che non riguardavano l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Tanto lì non sapevano cosa fare.