Per dare sostanza alla questione della “sovranità alimentare” affidata in custodia al ministro/cognato, il Governo ha riorganizzato, secondo la tradizione, il menù di palazzo Chigi. Il giovedì si servono gli gnocchi, il venerdì si fa vigilia con il pesce, rigorosamente azzurro. Poi ci sono i giorni della pasta e ceci e dell’abbacchio. Il lunedì il Governo incontra i sindacati per parlare di pensioni; quindi è opportuno mantenersi leggeri e cibarsi solo di “bufale” (non fraintendiamo: si tratta delle pregiate mozzarelle). Ieri si è affrontato il tema della previdenza complementare: un settore destinato a rafforzare l’adeguatezza delle prestazioni, aggiungendo un pilastro a capitalizzazione individuale, finanziato per via contrattuale attraverso una riconversione del Tfr per dare consistenza alle posizioni degli iscritti attraverso una risorsa il cui utilizzo non comporta un incremento del costo del lavoro, salvo rendere esigibile le relative somme altrimenti scritte solo nel bilancio delle imprese.
Si disse, al tempo della riforma Dini del 1995, che le forme di previdenza complementare sarebbero dovute servire soprattutto ai giovani, penalizzati dall’introduzione del sistema contributivo nel pilastro obbligatorio. Mentre coloro che erano già inseriti nel sistema conservavano il calcolo retributivo (se in possesso di un’anzianità pari o superiore a 18 anni di versamenti) o si vedevano applicare pro rata quello misto (un criterio poi divenuto di carattere generale a partire dal 1° gennaio 2012, in seguito alla riforma Fornero).
Purtroppo le cose hanno preso una piega differente: i fondi pensione hanno attecchito nei settori privati più sindacalizzati e quindi su di una tipologia di lavoratore stabile, di sesso maschile, con un’età anagrafica matura, occupato al Nord. L’uso individuale (nei fondi aperti e nei Pip) ha preso moto spazio rispetto a quello collettivo, la grande maggioranza degli iscritti ha scelto la liquidazione in capitale, avvalendosi spesso delle possibilità di anticipo, previste in concorrenza con l’uso possibile del Tfr. Ma il dato più serio è il “desencanto” che ha coinvolto la previdenza complementare dal 2007 in poi, quando vennero varate le norme per il conferimento del Tfr maturando come “pezzo forte” del montante contributivo. Addirittura anziché alleggerire il trattamento fiscale sui rendimenti (era pari all’11%) lo si è aumentato fino al 20%.
In proposito è positivo che le organizzazioni sindacali si interessino del rilancio del secondo pilastro: ma le idee non sono tante, né nuove e, soprattutto, non riescono a coinvolgere i settori del lavoro non standard a cui non è consentito – perché per loro non è previsto l’istituto – la possibilità di avvalersi del Tfr. Di conseguenza, la partecipazione a una forma di previdenza complementare è tutta a carico del loro reddito.
A quanto pare non si è parlato di previdenza obbligatoria, un tema che il Governo, nella Legge di bilancio, affronterà aggiustando le misure che hanno mantenuto in apnea il sistema in attesa di quella riforma di carattere strutturale evocata dai sindacati con la stessa visione messianica con la quale mia nonna, quando ero un bambino, preconizzava che io “avrei visto il socialismo”. Si parla di ritocchi per l’Ape sociale, per Opzione donna, per Quota 103. Poi – come hanno fatto tanti Governi prima dell’attuale – si è messa in circolazione una soluzione da libro “Cuore”: il part-time lavoro/pensione in corrispondenza dell’assunzione di un giovane. Una formula che non ha mai avuto un adeguato successo di adesioni.
Sarebbe stato il caso di commentare i dati e le considerazioni fornite dall’Inps nel suo XXII Rapporto, presentato nei giorni scorsi. Hanno attirato l’attenzione dei media la parte dedicata al lavoro povero e al salario minimo, perché si è dimostrato che, se si affronta il problema da un altro e più corretto punti di analisi, tutti i lai sprecati in questi mesi svaniscono come nebbia al sole. Pertanto, il capitolo sulle pensioni è rimasto defilato.
Il capitolo si conclude con un confronto internazionale dei sistemi di finanziamento delle pensioni. Nonostante i Paesi europei stiano affrontando difficoltà crescenti nel garantire prestazioni pensionistiche adeguate, gran parte della discussione e degli interventi messi in atto riguardano la sostenibilità della spesa previdenziale. Merita una segnalazione particolare la parte che riguarda le fonti di finanziamento per i trattamenti pensionistici nei diversi Paesi. E’ un problema che si sta ponendo da noi in vista delle misure di decontribuzione adottate dai due ultimi Governi, delle quali si chiede (e si promette) un carattere strutturale come se si trattasse di svuotare un salvadanaio dimenticato e non di una linea di finanziamento del sistema pensionistico in un sistema a ripartizione.
L’esame ci consente anche di dimostrare come sia campata per aria la c.d. separazione tra previdenza e assistenza. In generale, la maggior parte dei finanziamenti, negli altri Paesi, proviene dalla contribuzione previdenziale dei datori di lavoro e dei lavoratori, dai trasferimenti dello Stato attraverso la fiscalità generale, nonché da altre fonti minori e rendimenti degli investimenti finanziari. L’incidenza delle diverse fonti varia però notevolmente tra i Paesi. La contribuzione previdenziale rappresenta meno del 30% dei finanziamenti totali in Danimarca, oltre il 70% in Spagna, Irlanda e nelle Repubbliche Baltiche, e addirittura il 90% in Romania. In Italia, essa si avvicina alla media europea del 65,5%. I trasferimenti dello Stato variano da poco più del 10% in Paesi Bassi e Slovacchia a oltre il 50% in Danimarca e con una media europea del 25%. Le cosiddette fonti minori contribuiscono per oltre il 30% nei Paesi Bassi e a Malta e hanno un peso significativo anche nel nostro Paese.
Nel complesso, a seguito della grande recessione del 2007, dell’invecchiamento della popolazione e dell’implementazione di politiche lavorative e pensionistiche che hanno ridotto i salari e il numero dei contribuenti, tra il 2005 e il 2018, in tutti i principali Paesi Ue è cresciuta la dipendenza dal finanziamento a carico della fiscalità generale. Ciò indica che, nonostante le riforme adottate, il sistema previdenziale non è in grado di autofinanziarsi e questo è anche legato – come abbiamo accennato – al meccanismo della “ripartizione”, vigente nei principali Paesi europei, che prevede che i contributi dei lavoratori finanzino le prestazioni pensionistiche erogate nel medesimo arco di tempo.
Questo espone però il sistema previdenziale agli squilibri tra contribuenti attivi e pensionati beneficiari e alle dinamiche del mercato del lavoro. E mette in evidenza l’effetto devastante dei cambiamenti demografici. Il demografo Alessandro Rosina, consigliere del Cnel, nel suo ultimo saggio “Storia demografica d’Italia” lascia in braghe di tela tutti coloro che si rifiutano di capire il legame cruciale tra demografia, pensioni, mercato del lavoro e immigrazione. I trentenni di oggi – scrive – sono un terzo degli attuali cinquantenni. E i nuovi nati sono un terzo in meno degli attuali trentenni. Senza una vera strategia dell’immigrazione in combinazione con politiche famigliari inclusive, la prospettiva è quella dell’estinzione. Alla faccia della “sostituzione etnica”.
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