È cominciato un anno che si vorrebbe di concretezza e non solo di speranza nella realizzazione di una riforma previdenziale necessaria che gli italiani aspettano, ma che il Governo non si decide a mettere tra le priorità da affrontare. La riforma della giustizia, quella del fisco e l’inutile riforma presidenziale sembrano le priorità che l’Esecutivo vuole perseguire a discapito di una riforma previdenziale che, unita a una seria politica attiva sul lavoro e a un focus sulla natalità, possa far uscire il Belpaese dalle secche in cui, a causa di una politica divisiva e di forte polarizzazione, si è trovato.



Dopo una deludentissima Legge di Bilancio che ha fortemente peggiorato i tre istituti che consentono un’uscita anticipata che superi la rigidità imposta dalla Legge Fornero da sempre criticata e che adesso viene indicata come argine ai costi spropositati della previdenza, ci si aspetta qualcosa che vada oltre le generiche, stucchevoli, affermazioni di esponenti di Governo sul fatto che l’argomento è all’ordine del giorno, che non è mai venuto meno l’interesse di operare una riforma equa che dia fiducia e certezza e sulla volontà di realizzare interventi nei confronti delle categorie più fragili e delle giovani generazioni che stanno pagando il prezzo più alto sulla previdenza.



Lo sconcertante atteggiamento del Governo nell’anno appena passato nell’affrontare il tema con incontri inconcludenti con le parti sociali, alla presenza di delegazioni infinite e l’istituzione di un Osservatorio sui costi dei flussi previdenziali che, come ampiamente previsto, si è rivelato non decisivo perché senza capacità di spesa, ha rimandato la soluzione del problema a tempi migliori. Purtroppo, questa speranza difficilmente potrà esaudirsi in questo 2024, perché a causa del perdurare di due guerre in cui siamo indirettamente coinvolti con una previsione del Pil dimezzata rispetto a quanto indicato nella Nadef, farà sì che, probabilmente, si assisterà solo a pochi provvedimenti inseriti a fine anno nella prossima Legge di bilancio.



Il fatto che per l’anno in corso non è stato prorogato il contratto di espansione introdotto nel 2019 basato su un accordo stipulato in sede governativa con le aziende di almeno 50 dipendenti e che prevedeva la cassa integrazione straordinaria e un esodo anticipato fino a 5 anni dei lavoratori e il fatto che sia passato il mese di gennaio senza alcuna convocazione delle parti sociali non sono buoni segnali nell’ottica di intervenire da subito su questo aspetto delicatissimo che impatta in maniera sostanziale nella vita dei cittadini.

Eppure, qualcosa si deve e si può cominciare a fare. Per esempio, cominciando da quanto evidenziato sia dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) che da istituti che si occupano di previdenza sulla necessità di separare la previdenza dall’assistenza di cui si parla da una ventina d’anni senza mai concretizzare nulla. Il recente Rapporto di Itinerari Previdenziali relativo all’anno 2022 evidenzia che epurando le spese assistenziali e togliendo anche l’Irpef le spese per la previdenza in Italia si attestano sotto il 9% del Pil con un esborso inferiore ai 200 miliardi di euro a fronte di contributi previdenziali di oltre 230 miliardi.

L’istituto parigino che comprende 36 Paesi si spinge anche oltre affermando che a causa di un enorme debito pubblico pari a circa il 140% del Pil (terzo più elevato tra i Paesi che compongono questa organizzazione internazionale), che potrebbe addirittura aumentare di 40 punti nei prossimi vent’anni, riguardo al tema previdenziale sarebbe bene eliminare gli anticipi pensionistici e tassare le pensioni elevate non corredate da corrispondenti versamenti previdenziali. Continua poi affermando che in Italia a causa di un numero troppo basso di lavoratori rispetto alla media dei Paesi aderenti e di retribuzioni insoddisfacenti, pur avendo il Belpaese i più alti versamenti contributivi tra tutti i Paesi aderenti, vi sono, di conseguenza, assegni previdenziali molto bassi evidenziando anche che un giovane che entra ora nel mondo del lavoro in Italia sarà costretto a rimanervi almeno fino a 71 anni.

Si può essere assolutamente d’accordo sulla separazione tra assistenza e previdenza, cosa che farebbe immediatamente emergere almeno un paio di miliardi di indebite percezioni di assegni, parzialmente d’accordo, dopo essersi assicurati della costituzionalità della norma, sull’intervento di porre un tetto agli assegni a cui non corrispondono adeguati versamenti contributivi, contrari, invece, all’interruzione “tout court” degli anticipi pensionistici che potrebbe essere attuato mantenendo il sistema misto che naturalmente si esaurirà nei prossimi anni proponendo, invece, una penalizzazione annua per eventuali anticipi a cui potrebbe corrispondere per talune categorie un bonus annuo per chi invece desiderasse rimanere nel mondo del lavoro oltre l’età ordinamentale di pensionamento.

Qualsiasi strada voglia intraprendere il Governo è necessario che abbia le idee chiare su come muoversi e abbia anche una visione illuminata sull’argomento mettendo in campo tutte le proprie specificità e competenze e anche andando alla ricerca di nuovi importanti scenari come, per esempio, cominciare a parlare di parziale tassazione di robot e Intelligenza artificiale che già adesso, ma ancor più nei prossimi anni, determineranno dei profondi sconvolgimenti nel mondo del lavoro e di conseguenza in ambito previdenziale.

mauromarinoeconomiaepensioni@gmail.com

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