Goodbye Lenin! è un film del 2003 che racconta la vicenda di Christiane, un’attivista della Sed che vive nella Germania dell’Est. Poco prima del crollo del Muro di Berlino cade in coma. Quando si risveglia i figli si adoperano perché non scopra che il Paese è finito nelle mani dei capitalisti, nella convinzione che non riuscirebbe a superare lo shock, Durante la convalescenza della madre, i figli con l’aiuto di alcuni amici improvvisano una televisione a circuito chiuso attraverso la quale proiettano telegiornali e servizi invertendo il corso degli eventi, Nella loro narrazione è la Repubblica federale ad aver sposato la causa del socialismo aderendo alla Ddr. Un lavoro di mesi, fino a quando è la madre che scopre la verità uscendo di casa e vedendo un mondo migliore di quello che ricordava. Che cosa c’entra questa storia con l’incontro di ieri tra il ministro Marina Calderone e i sindacati sulle pensioni?
“Un incontro – che è stato definito da Landini il Terribile – totalmente inutile. Hanno ridetto le cose di gennaio e sulle risorse per fare una trattativa vera non ci hanno risposto”, ha poi aggiunto il Segretario generale della Cgil. “Un incontro negativo. Il Governo non ha la volontà vera di aprire la trattativa e il ministro non ha alcun mandato”.
Ecco allora che giunge a proposito il film, mettendo la Cgil al posto della madre fervida militante della Sed, e il Governo al posto dei figli e degli amici premurosi che si rendono protagonisti di una grande menzogna a fin di bene.
Non solo il Governo Meloni, ma in precedenza anche precedenti Esecutivi non hanno mai dato prova dell’onestà di dire ai sindacati: “Cari amici, le vostre proposte sono fuori mercato; o ne prendete serenamente atto oppure ci incontreremo periodicamente a predisporre tavoli tecnici che non approderanno ad alcun risultato, mentre in sede di Legge di bilancio ci inventeremo un’altra quota come regime di transizione. Voi andrete in giro a raccontare che ancora una volta siete riusciti a evitare l’entrata in vigore della riforma Fornero, mentre noi o gli altri Governi che verranno riusciremo a controllare la situazione e a aggiustare i guasti determinati con Quota 100. Immaginiamo che vi sarete accorti che con Quota 102 e 103, i Governi riescono a mandare in pensione anticipata i baby boomers a un’età superiore a quella indicata nei parametri”.
Come si fa a definire strutturale una riforma che osserva la realtà del mercato del lavoro dallo specchietto retrovisore? L’asse Salvini/Landini si è messo in testa Quota 41 a prescindere dall’età anagrafica senza accorgersi che una norma siffatta consentirebbe nei prossimi anni un massiccio esodo di anziani/giovani candidati a restare in quiescenza almeno vent’anni, mentre diverrebbe un limite insuperabile per le giovani generazioni per le quali – in base a tutte le condizioni demografiche, occupazionali e quant’altro – sarà molto più agevole lavorare qualche anno in più piuttosto che accumulare una ragguardevole anzianità di servizio stabile e continuativa. L’ha letto Landini il Rapporto della Fondazione Di Vittorio dal quale risulta che tra vent’anni mancheranno almeno 6 milioni di persone in età di lavoro? Il sistema pensionistico è attraversato da una faglia destinata a esplodere, perché nei prossimi anni aumenteranno – salvo norme che incidano sull’età pensionabile – i pensionati mentre diminuiranno i contribuenti. Siano benvenute le norme a favore della natalità, ma – ammesso che sia possibile – ci vorranno decenni per determinare un minore squilibrio nel mercato del lavoro e una migliore sostenibilità dei sistemi di welfare.
Quando Ignazio Visco nelle Considerazioni finali ha messo in fila una serie di criticità che hanno chiamato in causa anche il tema dell’età pensionabile parlava forse a nome della finanza globale, della filosofia del rigore o metteva in evidenza una realtà dura da accettare ma impossibile da smentire? “In soli tre anni, dal 2019 – ha detto il Governatore – il numero di persone convenzionalmente definite in età da lavoro (tra i 15 e i 64 anni) è diminuito di quasi 800.000 unità. Secondo le proiezioni demografiche dell’Istat, nello scenario centrale entro il 2040 la popolazione residente si dovrebbe ridurre di due milioni e mezzo di persone; quella tra i 15 e i 64 anni di oltre sei. Il miglioramento delle condizioni di vita e di salute conseguito negli ultimi decenni – aggiungeva – potrà consentire a non poche persone di lavorare oltre il limite convenzionale dei 64 anni, in linea con le tendenze già in atto, sostenute anche dalle riforme pensionistiche. Sicuramente occorrerà accrescere la capacità di impiegare i giovani e le donne, i cui tassi di partecipazione in tutte le aree del Paese sono davvero modesti, e nel Mezzogiorno i più bassi d’Europa. Anche nell’ipotesi molto favorevole di un progressivo innalzamento dei tassi di attività dei giovani e delle donne fino ai valori medi dell’Unione europea, nei prossimi venti anni la crescita economica non potrà contare su un aumento endogeno delle forze di lavoro: gli effetti del calo della popolazione nelle età centrali potranno essere mitigati nel medio periodo, oltre che da un allungamento dell’età lavorativa, solo da un aumento del saldo migratorio (che pure nello scenario di base l’Istat prefigura pari a 135.000 persone all’anno, più del doppio degli ultimi dieci anni, dopo una media di oltre 300.000 nel precedente decennio). Per gestire i flussi migratori occorreranno politiche ben concepite di formazione e integrazione, indispensabili per l’inserimento dei migranti nel tessuto sociale e produttivo. Un recupero della natalità dai livelli particolarmente bassi del 2021, per quanto auspicabile, rafforzerebbe l’offerta di lavoro solo nel lunghissimo periodo”.
Non è un ragionamento così difficile da fare da parte del Governo; e da capire da parte dei sindacati.
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