RIFORMA PENSIONI. Uno degli impegni che il ministro Marina Calderoni ha assunto nell’incontro con i sindacati ha riguardato la costituzione di un gruppo di lavoro incaricato di approfondire la questione della separazione tra previdenza e assistenza, che secondo le organizzazioni sindacali risolverebbe i guai del sistema pensionistico. Tra coloro che sostengono questa tesi vi sono anche studiosi seri, di grande esperienza e conoscenza dei problemi. Per quanto mi riguarda io non riesco a capacitarmi di come si possano sostenere tesi siffatte.
È mai possibile che nessun Governo abbia mai sollevato una simile “dottrina” in Europa e a livello dei mercati? Vogliamo farci del male, rifiutandoci persino di avvalerci di un’operazione semplice come l’uovo di Colombo e che consentirebbe all’Italia di ridare la verginità a un sistema pensionistico che l’ha perduta da un pezzo?
Basterebbe – secondo queste opinioni – scorporare quella che è definita “spesa assistenziale” e defalcato l’ammontare che i pensionati versano al fisco per ridare slancio e sostenibilità al sistema pensionistico. Eppure, l’anno scorso era cominciato con una buona notizia. Il Comitato tecnico incaricato di approfondire il tema della separazione della previdenza dall’assistenza aveva concluso i suoi lavori con un documento che ricostruiva i termini del problema e arrivava a una conclusione – tra le tante approfondite e corrette – che avrebbe dovuto fare testo e spazzare via dal dibattito un’operazione di falso in bilancio che, fino a prova contraria, è una fattispecie di reato. Eppure, tanto intensa è stata la campagna che l’idea della separazione è assurta nell’empireo dei luoghi comuni, che vengono accettati come verità assolute.
È la solita storia: quando si pretende di avere soluzioni semplici per problemi complessi, si fa sempre bella figura. Infatti, qual è la tesi dei “separatori”: mandiamo a Bruxelles solo la percentuale (sul Pil) di quella che è – secondo loro – la spesa pensionistica purificata da quella per l’assistenza (2% circa di Pil) e torniamo ad avere le carte in regola rispetto alla critica che ci rivolgono. Come se nell’Ue fossero nati con l’anello al naso (ammesso che questo paragone sia ancora politicamente corretto, cosa di cui dubito).
Le statistiche si compilano secondo regole comuni e concordate in sede Eurostat. Infatti, il documento del Comitato chiarisce quali sono i criteri dell’Eurostat per calcolare la spesa pensionistica. È seguendo questi criteri che emergono i dati anomali del nostro sistema. In teoria, si possono adottare regole diverse, ma lo si può fare assieme agli altri. Ma l’argomento fondamentale per smentire i separatisti è un altro. Che cosa è considerata assistenza secondo la Costituzione? Leggiamo il comma 1 dell’articolo 38: “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza social”. È evidente che – proprio per la loro natura – le prestazioni che sono riconosciute ai cittadini in quelle condizioni sono a carico della fiscalità generale. Da noi il concetto si è rovesciato: è assistenza tutto ciò che viene finanziato da trasferimenti dal bilancio dello Stato e non dalle risorse provenienti dalla contribuzione sociale. Il ragionamento corretto è invece un altro: la spesa pensionistica – per una serie di motivi – è finanziata in parte con la contribuzione della produzione (peraltro ora fiscalizzata nella logica del taglio del “cuneo” tra costo del lavoro e salario netto) e in parte con trasferimenti dal bilancio dello Stato, che sono entrate regolari come i contributi, perché è la legge che prevede che talune prestazioni o parte di esse siano coperte con risorse provenienti dalla fiscalità generale. Quindi, chi parla di “buco” nel bilancio dell’Inps sottraendo i trasferimenti ordinari dalle entrate commette un errore e fornisce una rappresentazione scorretta della realtà.
Il punto fu ben chiarito nel documento della Commissione. “La Commissione concorda sul fatto che il canale di finanziamento delle prestazioni (contributi sociali o fiscalità generale) non può essere utilizzato come criterio per la quantificazione della spesa previdenziale per una duplice ragione: i) nulla osta che una spesa di carattere previdenziale sia finanziata attraverso imposte invece che con contributi, come dimostra anche la comparazione europea (e lo stesso caso italiano, ad esempio in presenza di forme di sgravi contributivi); ii) in Italia la fiscalità generale finanzia anche voci chiaramente di natura previdenziale, come si osserva dal bilancio della Gias, la “Gestione degli interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali”, istituita dall’art. 37 della legge n. 88 del 1989 nell’ambito del bilancio dell’Inps. Più in generale, l’intervento della fiscalità generale tramite il fondo Gias e il sistema di anticipazioni di tesoreria a cui periodicamente attinge l’Inps ha come finalità quella di finanziare/ripianare gli squilibri finanziari dell’ente preposto all’erogazione delle prestazioni piuttosto che dare copertura finanziaria alle singole prestazioni.
A conferma di ciò, la Commissione evidenziò un dato che il dibattito italiano si rifiuta di tenere nel debito conto: nel 2019 i contributi sociali hanno coperto una quota della spesa previdenziale pari solamente al 76,3%, proseguendo una tendenziale riduzione della sua copertura nel corso degli ultimi anni. Pertanto è scorretto affermare che è aumentata la spesa per l’assistenza; la verità è che – per varie ragioni – è aumentato l’apporto dei trasferimenti per finanziare la spesa pensionistica. Un altro motivo taglia la testa al toro: la separazione è già stata attuata.
Il principio della separazione tra assistenza e previdenza ha trovato attuazione nella legge n. 88/1989 che ha riformato in tal senso la struttura del bilancio dell’Inps. In particolare – oltre alla Gestione delle prestazioni temporanee, che eroga le prestazioni contro la disoccupazione involontaria, la Cig ordinaria, gli assegni al nucleo familiare, l’assistenza alla malattia e alla maternità, nell’ambito del Comparto dei lavoratori dipendenti – venne istituita (art. 37) la già ricordata Gestione degli interventi assistenziali e di sostegno al reddito (Gias) che divenne il collettore degli apporti dal bilancio dello Stato a quello dell’Inps. Così, una serie di prestazioni (pensioni sociali, agevolazioni contributive, prepensionamenti, quota parte per ciascuna mensilità di pensione, ora anche agevolazioni agli esodati, ecc.) furono poste a carico dello Stato, il quale si accollò anche l’onere di ripianare il debito accumulato dall’Istituto (17.650 miliardi di lire nel 1986 a copertura del disavanzo patrimoniale al 31 dicembre della Cig e a copertura parziale dei disavanzi patrimoniali al 31 dicembre 1986 del Fpld e della Gestione Coltivatori diretti (Cdcm) per 20mila miliardi di lire nel 1987 e 40mila nel 1998). Così, già dal 1989 i bilanci delle gestioni Inps furono predisposti secondo le nuove direttive, che prevedevano una ricomposizione funzionale delle attività con riferimento alla loro natura previdenziale o non previdenziale.
Per mostrare l’influenza delle nuove regole lo stesso Inps formulò una simulazione assai interessante dimostrando che in un eventuale rendiconto per il 1989, redatto secondo i previgenti criteri, la previdenza – intesa come la somma di tutte le gestioni previdenziali -, anziché avere un saldo attivo di 155 miliardi di lire (come risultava in conseguenza della riforma della struttura del bilancio) avrebbe avuto un passivo di oltre 11mila miliardi di lire. A sua volta, l’intervento a carico dello Stato anziché avere un passivo di 10mila miliardi, avrebbe avuto un attivo di 1.200 miliardi di lire.
Va riconosciuto, tuttavia, che gli effetti della legge n. 88/1989 furono importanti nel determinare – sia pure ope legis – un processo di risanamento del bilancio Inps, sia attraverso l’istituzione del Comparto dei lavoratori dipendenti che, accorpando Fpld e Gpt, finiva per compensare le passività del primo con il saldo attivo della seconda e per realizzare un risultato complessivo positivo; sia grazie alla Gias che aveva il compito di raccogliere le prestazioni più critiche, poste a carico della fiscalità generale. Sulla via della separazione tra previdenza e assistenza vanno segnalati due interventi molto importanti: il primo contenuto nella legge n. 449/1997 (la Finanziaria per il 1998); il secondo nella legge n. 448/1998 (la Finanziaria per il 1999). Nel primo caso, a seguito di un negoziato del Governo Prodi con le organizzazioni sindacali, furono ridisegnati i confini tra due settori, spostando nel campo dell’assistenza (e quindi del finanziamento di natura fiscale), oltre a ulteriori trasferimenti (per 1.773 miliardi di lire) e all’adeguamento degli oneri di cui all’articolo 37 legge n. 88/89 (per 664 miliardi di lire), la copertura degli oneri delle pensioni d’invalidità ante 1984 (per 6mila miliardi di lire), degli oneri delle pensioni Cdcm ante 1989 (per 3.782 miliardi di lire). Venne, altresì, stabilito che lo Stato avrebbe garantito la copertura piena alla Gias, la quale da allora in poi sarebbe stata, per definizione, in pareggio. Così è avvenuto. La legge n. 448 dell’anno successivo fece il resto, nel senso che stabilì il superamento della pratica delle anticipazioni di tesoreria, usate al posto dei trasferimenti dovuti e sancì la cancellazione (articolo 35) del debito pregresso accumulato a tale titolo dall’Inps.
Si trattò di un’operazione che toglieva di mezzo un debito contabile di 160mila miliardi di lire (che nessuno avrebbe mai riscosso). Il bilancio dell’Inps ricevette un notevole beneficio, in termini di risultato d’esercizio, per effetto della integrale finanziamento della Gias; quanto alla situazione patrimoniale passò da un dato negativo di 99mila miliardi di lire nel 1997 a uno positivo di 24mila miliardi di lire al 31.12.1998 per effetto dell’articolo 35 della legge n. 448/1998 che stabilì che le anticipazioni di tesoreria concesse dallo Stato all’Inps fino al 31.12.1997 dovessero essere riconosciute ex post in trasferimenti definitivi. In seguito confluirono nella Gias altre prestazioni (esempio: il ripiano del Fondo FS – che costituisce senza ombra di dubbio un’istituzione previdenziale – viaggia nell’ordine di oltre 4 miliardi di euro l’anno) man mano che i relativi compiti erano trasferiti all’Inps.
Al dunque, dopo quest’insieme di operazioni che hanno lasciato il segno nella contabilità nazionale, è sempre più difficile attribuire, in via di principio, una prestazione al settore dell’assistenza piuttosto che a quello della previdenza secondo i canoni dell’articolo 38 Cost. Si può riconfermare, allora e senza tema di smentita, che oggi le prestazioni assistenziali vengono considerate tali non in base alla loro natura, ma se il loro finanziamento è a carico della contribuzione oppure dei trasferimenti dello Stato. Ma sotto questo aspetto la fiscalità generale si è già sobbarcata oneri considerevoli. In poche parole: potremmo dire che “ha già dato”. Le si chiede di dare di più di quanto si è aggiunto in tutti questi anni (si veda il pacchetto Ape, la c.d. quattordicesima, ecc.) e di mettere a carico dei trasferimenti dal bilancio dello Stato tutto ciò che il bilancio dell’Inps non riesce a coprire? Non è proibito. Nel ’98 si andò oltre quanto era stato concordato nel ’89. Ma almeno si chiamino le cose con il loro nome. E non si contrabbandi per assistenza quella che è comunque spesa pensionistica, al solo scopo di rappresentarne una minore incidenza sul Pil. Non è l’assistenza a gravare sulla previdenza. È quest’ultima a ricevere un aiuto dall’altra, attraverso bonifici dal bilancio dello Stato.
Ovviamente, secondo la logica per cui lo Stato si accolla con trasferimenti (che costituiscono entrate ordinarie al pari dei contributi) le prestazioni prive di copertura o dotate di copertura inadeguata, nulla vieta che si individuino altre misure affidate alla copertura dei trasferimenti, ma non si venga a raccontare che quella maggiore spesa che viene comunque dedicata al quantum delle pensioni, se riesce a essere etichettata come assistenza, diventa leggera e asessuata come gli angeli. Sparisce dai conti della spesa. Sembra che abbiano l’onore di definirsi “previdenziali” solo le prestazioni delle gestioni sorrette dalla contribuzione sociale (è un ragionamento solo teorico perché è dubbio che ne esistano ancora), ma è una pura invenzione. Il comma 4 dell’articolo 38 recita infatti: “Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato”. Pare proprio che sia secondario sapere chi paga. E quando Macron propone di portare a 1.200 euro lordi mensili la pensione minima, non si pone il problema di classificare quella spesa che, comunque, al pari delle misure integrative della pensione a calcolo contemplate nel nostro ordinamento, riguardano sempre i trattamenti pensionistici.
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