RIFORMA PENSIONI. Uno dei pochi meriti che va riconosciuto alla piattaforma dei sindacati in materia di pensioni e che sarà oggetto di uno dei prossimi incontri col Governo riguarda certamente il tentativo di rilanciare la previdenza complementare. Si tratta di un tema che da almeno 15 anni è sparito dai radar della politica, tranne che per uno sciagurato aumento dell’aliquota sui rendimenti dall’11% al 20%. Addirittura il Governo giallo-verde – col pretesto di migliorare la storia contributiva pubblica – aveva adottato provvedimenti che sottraevano possibili risorse alla previdenza privata. Riportare il settore al ruolo per cui era stato previsto nel quadro delle grandi riforme pensionistiche degli anni ’90 potrebbe divenire un contributo effettivo per garantire ai giovani di oggi un trattamento pensionistico più affidabile (o comunque aggiuntivo) di quella pensione di garanzia di cui si parla con tanta insistenza. 



Sarebbe una buona politica, infatti, predisporre un sistema fondato sulla c.d. ripartizione del rischio: con una quota, magari prevalente, affidata alla solidarietà pubblica e una parte investita sui mercati; la prima finanziata a ripartizione, la seconda a capitalizzazione. Ecco perché sarebbe importante, come scrivono i sindacati nella loro piattaforma, “rilanciare le adesioni alla previdenza complementare negoziale, da anni sostanzialmente stagnanti”. 



Le indicazioni che seguono sono più programmatiche che operative allo scopo di garantire un’effettiva accessibilità anche a chi lavora nelle piccole imprese e ai giovani. In questa direzione viene proposto “in particolare un nuovo periodo di silenzio-assenso e una adeguata campagna informativa e istituzionale, così come meccanismi che consentano alla persona di poter esercitare liberamente la scelta di adesione”. Se comprendiamo bene, la proposta non è particolarmente innovativa: si tratterebbe di una sostanziale ripetizione della campagna effettuata nel 2008 quando vennero resi disponibili i futuri accantonamenti del Tfr, includendo nei fatti una riforma dell’istituto tutto sommato a vantaggio dell’Erario, poiché le quote non optate per una qualche forma complementare, nelle aziende da 50 dipendenti in su, venivano trasferite al c.d. fondo di tesoreria gestito dall’Inps che gestiva le risorse per la spesa corrente, dopo aver liquidati i trattamenti correnti. 



Occorre compiere un passo in avanti più coraggioso, come insegna l’esperienza di quelle categorie – ad esempio, gli edili – che hanno previsto, in via contrattuale, l’adesione diretta al fondo pensione di categoria. Circa 1,2 milioni del totale degli attuali iscritti è entrato a far parte di tale insieme tramite il meccanismo di adesione contrattuale, introdotto a partire dal 2015 e oggi applicato in 12 fondi. Questo meccanismo che rappresenta la sola novità apportata nel settore funziona così: il datore di lavoro versa il contributo previsto dal contratto di riferimento a favore di tutti i lavoratori ai quali si applica tale contratto; il versamento affluisce al fondo individuato dalla contrattazione collettiva e, laddove il lavoratore non sia già iscritto, lo iscrive in modo automatico a tale fondo.

Oltre all’estensione dei fondi pensione ai comparti della sicurezza, Cgil, Cisl e Uil chiedono di riportare la tassazione dei rendimenti dei fondi pensione alle precedenti aliquote più favorevoli e di promuovere le condizioni perché i fondi investano maggiormente nell’economia reale del Paese, prediligendo il sostegno alle infrastrutture, anche sociali. Questa proposta è un po’ involuta e va considerata con molta attenzione. L’obiettivo dei fondi pensione e delle altre forme di previdenza complementare è quello di incrementare il più possibile i montanti contributivi per poter erogare migliori trattamenti pensionistici, non quello di prender parte a investimenti finanziari rischiosi e speculativi. Sappiamo che esistono più linee di investimento e che vi sono mercati – come quelli azionari – che possono avere rendimenti vantaggiosi, ma anche sbalzi consistenti di mercato. In tutto il mondo vi sono grandi fondi che investono nell’economia reale, ma devono farlo senza lasciarsi coinvolgere in politiche pubbliche che immobilizzano ingenti capitali con rendimenti poco sicuri. Il che non significa voler difendere uno status quo assai poco edificante, dove la maggior pare delle risorse è investita in titoli di Stato italiani ed esteri, quando è nota la situazione del debito sovrano e dei rischi che corre la sua stabilità. Quanto al problema di rendere accessibile i fondi pensione ai giovani è necessaria una riflessione di fondo: il tfr è stato individuato come la fonte principale di finanziamento della previdenza complementare. È una quota consistente di retribuzione differita (circa il 7%) che viene resa disponibile (anziché allocata nei bilanci delle aziende) ma che non altera, più di tanto se non in termini di cassa, il costo del lavoro. 

Ma come la mettiamo con i titolari di rapporti diversi dal lavoro subordinato? Nella riforma Fornero era contenuta – accompagnata da tutte le cautele del caso – una proposta interessante: la possibilità di effettuare un’operazione in opting out ovvero di indirizzare, volontariamente, una quota prevista per la contribuzione obbligatoria, al finanziamento della previdenza privata. Nel sistema contributivo il montante è rivalutato sulla base del Pil che a volte ci ha lasciato un po’ in braghe di tela. Non è impossibile che sui mercati finanziari si ottengano rendimenti superiori. Certo ci sarebbe un trattamento pensionistico pubblico più basso, che potrebbe essere compensato da una quota a capitalizzazione più elevata. L’operazione non è così semplice e presenterebbe dei problemi. Ma potrebbe essere una soluzione interessante e più flessibile soprattutto per i giovani, in regime contributivo e per quelli i cui rapporti di lavoro non prevedono l’erogazione del tfr. 

Prendiamo il caso di un collaboratore a partita Iva, magari giovane, che deve sobbarcarsi da solo il 25% dell’aliquota della Gestione separata (certo potrebbe scaricare il 4% sul committente), qualora intendesse fare un versamento adeguato per un fondo aperto, sempre con risorse provenienti dal suo reddito, forse si domanderebbe se ne vale la pena, visto che si deve pur vivere anche prima di andare in pensione. 

In sostanza, per lavoratori non standard è il peso economico della previdenza obbligatoria che scoraggia l’adesione a quella complementare, soprattutto se vengono ridimensionati i vantaggi fiscali.

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