Cavalcarono insieme. È il titolo di un vecchio film western che ben si adatta alle due interviste (rispettivamente di Pasquale Tridico e Maurizio Landini) che hanno dominato sui quotidiani di ieri. Il Presidente dell’Inps ha suonato le sue trombe, il leader della Cgil le sue campane. L’intonazione, tuttavia, era la stessa: come cambiare la riforma pensioni della Fornero che, a conclusione dei danni prodotti dal regime sperimentale (ricordo che non esiste solo il problema di quota 100 sino a tutto il 2022, ma quello ben più oneroso del blocco dell’anzianità a prescindere dai requisiti anagrafici fino alla fine del 2026), tornerebbe, un po’ azzoppata e debilitata, in vigore.



Tridico non ha dubbi: si potrà andare in quiescenza a partire dai 62 anni di età facendo valere almeno venti di contributi versati. Ci sarebbe però un prezzo da pagare: il calcolo avverrebbe con l’applicazione del regime contributivo (ovviamente anche per i periodi sottoposti al sistema retributivo). Su quest’ultimo punto Landini strabuzza gli occhi e alza la voce: bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare e il calcolo retributivo pro rata a coloro che ne hanno diritto.



La proposta delle confederazioni – per grandi linee – la conosciamo. Paradossalmente, messa per iscritto, potrebbe persino sembrare più rigorosa di quella esposta dal Presidente dell’Inps (“la più grande azienda pubblica d’Europa”). Nell’intervista di Tridico non vi è alcun riferimento a una delle misure che garantiscono in futuro un pencolante equilibrio del sistema pensionistico ossia l’adeguamento periodico automatico all’incremento dell’attesa di vita per i requisiti anagrafici e retributivi richiesti. Sappiamo che in proposito vi sono pareri diversi.

Alcuni pensano, per esempio, che questo meccanismo debba essere soppresso per conseguire il trattamento anticipato che dovrebbe restare inchiodato ad Aeternum a 42 anni e 10 mesi per gli uomini e a un anno in meno per le donne, introducendo, però, benefici figurativi in relazione alla maternità. Ma le grandi confederazioni sindacali hanno messo sul tavolo del confronto con il ministro Catalfo (che si aprirà il giorno dopo le elezioni) un progetto con la testa girata all’indietro, che arriva oltre l’orizzonte perduto a causa della riforma del 2011. Sarebbero confermati i classici due canali: un mix di requisiti anagrafici e contributivi, a partire da almeno 62 anni di età con almeno 20 anni di contributi oppure facendo valere 41 anni di versamenti in assenza di qualunque requisito anagrafico.



Per quanto riguarda il salvataggio del sistema misto (le quote regolate dal calcolo retributivo rimangono pro rata in quel regime) abbiamo già detto. I lavoratori intenzionati a rimanere in attività oltre l’età di 62 anni si avvarrebbero di una scala di coefficienti di trasformazione a garanzia di un importo più elevato dell’assegno. Al posto dell’adeguamento automatico all’incremento dell’attesa di vita (la cui introduzione risale, sia pure limitatamente al requisito anagrafico, all’ultimo governo Berlusconi) opererebbe un meccanismo di revisione (naturalmente al ribasso) del livello dei coefficienti.

Sembra di capire, in sostanza, che a fronte di un incremento dell’attesa di vita non si chiederebbe di andare in pensione più tardi, ma, in proporzione, con un trattamento più basso perché percepito per un numero di anni più lungo. La solita storia: meglio andare in pensione, il più presto possibile, anche con un assegno ridotto. Se consideriamo, poi, la proposta di Tridico è il caso di lanciare qualche caveat. L’anticipo della pensione a 62 anni sarebbe penalizzata almeno tre volte: il requisito minimo di 20 anni è estremamente basso. Si dirà che non è molto diverso da quello che propone la riforma Fornero per coloro che sono interamente nel calcolo contributivo (63 ora 64 anni con 20 anni di contributi), ma si aggiunge un requisito di adeguatezza (la pensione deve essere almeno pari a 2,8 volte l’importo dell’assegno sociale). Per il Presidente dell’Inps – e anche per i sindacati – l’adeguatezza viene dopo la garanzia di un’età pensionabile del tutto in contraddizione con le tiritere che sono all’ordine del giorno per quanto riguarda i trend anagrafici con il mix esplosivo dell’invecchiamento combinato con la denatalità.

Alzare l’età effettiva di pensionamento è non solo un’esigenza per la sostenibilità del sistema, ma anche per mantenere livelli di offerta di lavoro compatibili con la domanda. La torsione in senso contributivo del calcolo della pensione per quanti sono nel regime misto comporterà in generale una penalizzazione economica, che si aggraverà per effetto di un moltiplicatore più basso del montante contributivo, essendo i coefficienti di trasformazione parametrati in senso crescente rispetto all’età in cui una persona sceglie di andare in quiescenza.