RIFORMA PENSIONI, FUORIUSCITA DA QUOTA 100 E AGEVOLAZIONI PER LAVORI GRAVOSI
Sulla riforma pensioni si naviga ancora a vista. Ma la nebbia è così fitta che la navigazione è incerta e l’approdo lontano. Finora la rotta sembra essere quella che il ministro Orlando indicò ai sindacati nell’incontro del 29 luglio, quando illustrò i risultati di una commissione tecnica, presieduta dall’ex ministro Cesare Damiano, incaricata di ridefinire il perimetro dei lavori disagiati/gravosi. Questa impostazione, unita al silenzio sulle proposte pomposamente redatte e presentate dai sindacati, lasciò intendere che il Governo intendesse “fuoriuscire” da Quota 100 mettendo in campo – insieme al rientro sui binari un po’ contorti della riforma Fornero – alcune agevolazioni (per quanto riguarda l’età del pensionamento) a favore dei lavoratori adibiti a mansioni gravose, con un possibile allargamento delle situazioni personali e familiari e delle categorie ora tutelate. Rimaneva nel vago se questa operazione fosse a carico del pacchetto Ape (come sarebbe ragionevole e coerente) o di una particolare tipologia di pensione (come, per esempio, prorogare Quota 100 magari con qualche ritocco limitatamente alle fattispecie ritenute disagiate).
Nel frattempo sono emerse alcune indicazioni relative a una prima istruttoria da parte della Commissione Damiano. Ne ha scritto Valentina Conte su La Repubblica: “Ne esce un elenco più esaustivo dell’attuale di professioni particolarmente pesanti: si passa così da 15 a 57 gruppi e da 65 a 203 (o 207? Ndr) mansioni o sottogruppi. L’obiettivo è consentire a più lavoratori di anticipare la pensione – tramite l’indennità ponte chiamata Ape sociale, al massimo 1.500 euro lordi al mese – a 63 anni con 36 di contributi, a patto di aver svolto quella mansione per sei anni negli ultimi sette o sette anni negli ultimi dieci”.
Come si è arrivati a questo elenco lo ha spiegato in un’intervista sul sito “Pensioni per tutti” Roberto Ghiselli, il Segretario della Cgil responsabile delle politiche previdenziali e membro a tale titolo della commissione sui lavori gravosi. Secondo il sindacalista, il documento “contiene soprattutto l’analisi delle diverse professioni classificate dall’Istat e ne ha determinato il grado di gravosità sulla base di indicatori che considerano la frequenza degli infortuni e delle malattie professionali. In questo modo – sostiene Ghiselli – sarà possibile se ci fosse la volontà politica del Governo, di estendere i benefici per i lavori più gravosi che attualmente vengono garantiti a pochissimi lavoratori”.
RIFORMA PENSIONI E LAVORI GRAVOSI: “L’ELENCO È UNA BASE DI PARTENZA”
Infatti, scrive Conte, dal 2017 al 2020 ne hanno usufruito appena 4.300 lavoratori a cui aggiungere i “gravosi” della categoria precoci – 20 mila – impegnati in mestieri pesanti iniziati però da minorenni e con almeno 41 anni di contributi. La spiegazione dello scarso appeal dello strumento starebbe nella scelta dei codici identificatori delle mansioni, troppo specifici ed escludenti. Lo dimostrerebbe l’alto numero di domande respinte negli ultimi 4 anni: il 61%, 9.604 su 15.783 presentate. E un esempio lampante, secondo La Repubblica è il seguente: gli operatori socio assistenziali (Osa) sono dentro, quelli socio sanitari (Oss) no.
In quale misura sarà possibile correggere questi “errori”? Ghiselli fa notare che, al dunque c’è sempre il problema delle risorse disponibili, ma che secondo i sindacati questo elenco è “una buona base di partenza, da ricomprendere fra i lavori gravosi, a cui garantire migliori condizioni di accesso alla pensione”. In sostanza, conferma Ghiselli, “l’elenco verrà consegnato al Governo e, ci auguriamo anche al confronto sindacale. Posso solo dire che nei primissimi posti vi sono molte categorie operaie, e poi conduttori di mezzi, operatori sanitari e assistenti alle persone. I criteri oggettivi utilizzati stanno facendo emergere un quadro abbastanza obiettivo, anche se poi alcuni approfondimenti andranno comunque fatti”.
Inoltre, emergerebbe dalla ricerca una differenza nella speranza di vita a scapito delle categorie sociali più deboli e siccome nel sistema contributivo la pensione viene calcolata sulla base della speranza di vita media, si genera un effetto regressivo a danno di chi fa i lavori più duri, manuali o comunque logoranti. “Su questo – avverte il sindacalista – occorre intervenire modificando le norme. Certo, si potrebbe fare osservare a Ghiselli che il calcolo sulla speranza di vita media nel sistema contributivo favorisce le donne, la cui aspettativa è più lunga di quella degli uomini. Oltre a un sostanziale allargamento delle categorie e ancor più delle mansioni sono previste modifiche nei requisiti contributivi da far valere insieme ai 63 anni di età. Così, ad esempio, gli edili passerebbero da 36 a 30 anni di servizio.
RIFORMA PENSIONI: POTENZIARE L’APE SOCIALE MA NON SOLO…
Che dire? È sempre opportuno avvicinarsi il più possibile agli effettivi bisogni delle persone quando si affrontano temi così importanti per la loro vita. È giusto, corretto e responsabile, però, mettere in campo due caveat grandi come montagne. Potenziare l’Ape sociale è sicuramente una scelta positiva perché consente di non disarticolare di nuovo le regole del sistema pensionistico, limitandosi a introdurre “uscite di sicurezza” per casi e situazioni di effettiva necessità (a un’età anagrafica pur sempre pari a 63 anni e con un’anzianità contributiva di una certa rilevanza). Attenzione però a non sconfinare nella “terra di nessuno” del “lavorare stanca”, che è poi il rischio vero della specificazione, ex novo, di una condizione di disagio come fattispecie separata e distinta da quella, finora gestita (male) dai sistemi pensionistici, dei lavori usuranti o particolarmente usuranti. Inoltre, è difficile centrare l’attività da ritenere prevalente nella storia lavorativa delle persone. Il ricorso ai valori medi costituisce, in un sistema pubblico e obbligatorio, la sola modalità operativa possibile. Scendere sempre più nello specifico delle diverse situazioni potrebbe condurre in una logica del trattamento ad personam, secondo criteri che neppure le assicurazioni sulla vita, nonostante secoli di esperienza, sono mai riusciti a definire.
Non è sempre corretto effettuare operazioni politiche (mandare in pensione il maggior numero di lavoratori il più presto possibile) avvalendosi del pretesto di motivazioni tecnico-scientifiche, che, alla fin dei conti, devono poi andare a batter cassa.
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