Ancora non si sa nulla di preciso sulla futura legge che riguarda la riforma delle pensioni, ma quello che appare abbastanza sicuro alla ripresa autunnale sono il rinnovo di Opzione Donna e dell‘Ape sociale che probabilmente sarà implementata aggiungendo altre categorie a quelle ora esistenti, ci sarà poi una conferma dell’isopensione e un’estensione dei contratti di espansione anche per le aziende sotto le cento unità di personale e poi, probabilmente, poco altro.
Tra le varie ipotesi che ci sono sul tappeto in tema previdenziale sicuramente quella dei sindacati confederali, che non sempre accompagnano iniziative concrete e convincenti a belle proposte, risulta la più interessante perché è sicuramente la più organica ed è quella che tiene conto di tutti gli aspetti del variegato e complesso mondo previdenziale. Tra i punti più stimolanti di questa proposta, oltre all’accesso al pensionamento con 41 anni di contribuzione o con 62 anni di età, ci sono due aspetti che non sempre sono stati messi nella giusta evidenza e che rivestono, invece, una grande importanza nella futura vita dei pensionati. Sto parlando di un nuovo semestre di silenzio/assenso per quanto riguarda la previdenza complementare e di una valorizzazione del montante contributivo o del coefficiente di trasformazione.
La riapertura di un altro semestre di silenzio/assenso per la previdenza complementare – chi non fa nulla aderisce automaticamente, altrimenti è necessario esprimere il proprio dissenso in forma scritta – sarebbe un toccasana perché in Italia, a differenza degli altri Paesi europei, questo istituto stenta a decollare, ma sarebbe utilissimo perché permetterebbe di implementare di un 20-25% la pensione pubblica che negli anni a venire non riuscirà a raggiungere più del 50% dell’ultimo stipendio. Aderendo a un fondo pensione aziendale (cosiddetti fondi chiusi) il dipendente destina la totalità del proprio Tfr che viene investito in maniera prudenziale e al termine della carriera lavorativa la somma maturata viene riassegnata al dipendente sotto forma di assegno mensile.
Esistono poi i “fondi aperti” che sono sottoscrivibili da chiunque, senza alcuna limitazione derivante dalla propria occupazione e infine ci sono i Pip, Piani individuali pensionistici che sono una forma di previdenza integrativa privata gestita da compagnie assicurative.
I dati relativi a queste forme di previdenza integrativa sono abbastanza confortanti, ma non ancora del tutto soddisfacenti. Nell’anno appena trascorso il totale delle posizioni si è incrementato di 235.000 unità arrivando a superare gli 8.400.000 iscritti e anche confrontando i rendimenti maturati possiamo notare che nel decennio 2011-2020 il rendimento dei fondi aperti è stato del 3,7%, quello dei fondi chiusi del 3,6% e infine i Pip hanno reso il 3,3% medio annuo con un raddoppio del rendimento rispetto al Tfr che ha reso l’1,8% annuo. Ulteriore aspetto da non sottovalutare è che tutti gli importi versati hanno una deducibilità fiscale fino a 5.164,57 euro.
Per effetto della legge Dini, a partire dal 1 gennaio 1996 per i nuovi assunti, per contenere i costi previdenziali da sempre sotto esame in tema di finanza pubblica, si è passati per calcolare l’assegno pensionistico dal sistema retributivo a quello contributivo, con un passaggio intermedio al sistema misto per chi avesse alla data del 31/12/1995 meno di 18 anni di contribuzione. Da quella data (1/1/1996) l’assegno previdenziale viene calcolato col sistema contributivo molto più penalizzante per i lavoratori. Dal punto di vista dell’Erario il sistema è perfettamente in linea, tanto versi tanto avrai, ma per il lavoratore la situazione è molto molto diversa. Autorevoli analisti economici hanno calcolato che un lavoratore che ha cominciato a lavorare dall’anno 1996 con tutti i contributi calcolati con il metodo contributivo avrà dopo 40 anni di lavoro una pensione che non supererà il 50% dell’ultima retribuzione.
Questo anche per effetto dei coefficienti di trasformazione che sono dei parametri variabili a seconda dell’età del lavoratore, tanto più elevati quanto maggiore è l’età, che a seguito della riforma Fornero del 2011 vengono aggiornati in base alla speranza di vita con la conseguenza pratica della riduzione progressiva dell’assegno previdenziale a compensazione del vantaggio che si avrebbe restando di più al lavoro. In pratica, in termini monetari il guadagno aggiuntivo che si avrebbe teoricamente a restare per più tempo nel mondo del lavoro viene completamente annullato dalla diminuzione biennale dei coefficienti.
Se non si interverrà immediatamente almeno in questi due aspetti con una minus tassazione sulla previdenza integrativa e un aumento della somma da dedurre ora ferma a 5,164,57 euro e attuando un’indicizzazione della pensione al 100% per effetto dell’inflazione reale, rischieremo di avere nei prossimi anni una categoria di nuovi poveri, i pensionati.
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