Tra i vari punti della piattaforma di Cisl, Cgil e Uil sulla riforma delle pensioni, la pensione contributiva di garanzia è sicuramente uno dei più delicati. Non si tratta, come insinua qualcuno, di una proposta irresponsabile per assicurare una rendita a chi lavora poco. Tutt’altro. Si tratta di una proposta ragionata, su cui la Cisl riflette da tempo, dalla struttura complessa, che nasce dall’osservazione delle conseguenze della progressiva flessibilizzazione del mercato del lavoro che, anche alla luce dei processi di trasformazione dell’organizzazione del lavoro e di informatizzazione dei processi produttivi, non è destinata a rallentare e produrrà importanti effetti sulle prospettive pensionistiche dei lavoratori e delle lavoratrici.
Il combinato disposto della domanda di lavoro flessibile e di un sistema contributivo che determina l’importo dell’assegno fotografando l’intera storia lavorativa può produrre prestazioni pensionistiche di importo insufficiente anche in presenza di un congruo numero di anni di lavoro.
I working poors di cui sempre più si parla, saranno pensionati ancora più poveri. Per queste persone, la prospettiva di rappresentare la versione aggiornata del protagonista del celebre film di De Sica Umberto D. del 1952 non è affatto irrealistica.
Chi ha iniziato a lavorare dal 1996 e quindi rientra interamente nel sistema contributivo, non ha diritto all’integrazione della pensione al trattamento minimo, ma solo a un’elevazione dei requisiti reddituali per ottenere l’assegno sociale, oggi di 467 euro.
Se la pensione calcolata su oltre 20 anni di lavoro è inferiore all’assegno sociale, allora perché versare i contributi? Questa è la domanda a cui vogliamo rispondere con la pensione contributiva di garanzia.
La prestazione a cui pensiamo dovrebbe avere un importo variabile in base agli anni di versamenti contributivi e di lavoro effettivo, per i quali potrebbe essere individuato un minimo, e a periodi qualificanti come i periodi di formazione, i periodi di disoccupazione involontaria non indennizzata e non coperti da contributi figurativi, i periodi di lavoro di cura per assistere disabili o seguire i figli.
Maggiore è l’età di pensionamento o il periodo utile, maggiore sarà l’importo. Non si tratta di riconoscere a priori dei contributi figurativi, ma di verificare le condizioni al momento della pensione, attribuendo un importo di garanzia a integrazione della pensione calcolata sulla base delle regole del contributivo.
È un modello articolato che deve anche essere coordinato con le attuali prestazioni di integrazione del reddito per non creare contraddizioni, con il quale, però, si valorizzano i periodi che dimostrano l’impegno attivo. Ovviamente i periodi di formazione, di disoccupazione involontaria e di lavoro di cura dovranno essere adeguatamente certificati.
Logica conseguenza è eliminare le soglie economiche che oggi impediscono di fatto a chi ha basse retribuzioni e quindi basse prestazioni, in larga parte donne, e chi svolge lavori particolarmente faticosi, di andare in pensione a età ragionevoli.
Nell’incontro tecnico tenutosi presso il Ministero del lavoro il 27 gennaio, i dirigenti dei dicasteri presenti hanno dato la disponibilità a verificare le potenziali platee di riferimento e successivamente valutare l’impatto economico delle varie ipotesi. Siamo consapevoli che le proiezioni in un orizzonte pluridecennale possano essere particolarmente complesse, ma a nostro avviso si può comunque iniziare a partire dai dati oggi disponibili negli archivi Inps rispetto ai redditi dei lavoratori, alle maternità, alle cessazioni di lavoro e così via.
Così come siamo assolutamente consci che nel nostro sistema, previdenza e mercato del lavoro sono strettamente legati. Anzi, è il lavoro a essere la radice della previdenza. È pertanto fondamentale che si orienti ogni sforzo per recuperare un contesto lavorativo dignitoso in termini quantitativi e qualitativi. Più il lavoro è retribuito in modo corretto e i contratti sono stabili, meno bisogno ci sarà della pensione contributiva di garanzia. Per incidere sulla stabilizzazione del lavoro non si può escludere di rendere più oneroso il lavoro a tempo determinato destinando, come per altre forme di sostegno al reddito, anche alla previdenza una parte del costo aggiuntivo in capo al datore di lavoro per creare un fondo in grado di finanziare, insieme alle risorse che dovranno essere trovate anche nella fiscalità generale, misure di sostegno all’adeguatezza delle pensioni future.
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