Governo nuovo, “manina” nuova. Questa volta, però, c’è una differenza non da poco. Nel primo caso la “manina” era stata accusata di aver introdotto – nottetempo – una tabella apocrifa nella relazione tecnica di un decreto del Governo giallo-verde. L’allora superministro dello Sviluppo e del Lavoro Luigi Di Maio (sic transit gloria mundi) alle prese con il suo primo cimento legislativo (il c.d. Decreto dignità) fece scoppiare il presunto scandalo della “manina”. Una tabella contenuta nella relazione tecnica del decreto certificava una diminuzione – peraltro contenuta – di posti di lavoro in conseguenza delle modifiche apportate alle regole del contratto a termine, con particolare riferimento al ripristino della causalità (la norma – per inciso – era copiata pari pari da un documento della Cgil) dopo i primi dodici mesi di durata. Successe il finimondo. Gli autori della tabella furono accusati di concorso esterno in infiltrazione notturna a scopo di caciara. Si cercarono i responsabili e i mandanti: i primi negli uffici del Mef, i secondi nei soliti poteri forti. Poi, scoperta la fonte (l’Inps), tutti se la presero con l’allora presidente Tito Boeri.



Le successive ricostruzioni dimostrarono che Di Maio era in possesso (e avrebbe potuto conoscerne il contenuto se avesse letto le carte) da settimane di quella tabella, anche perché la stessa si limitava a spiegare i motivi delle coperture finanziarie contenute in un articolo del decreto per fare fronte alle minori entrate fiscali e contributive derivanti proprio dagli effetti negativi sull’occupazione. In sostanza la “manina” era la sua, ma non si era accorto di avercela messa.



L’altra “manina” non tira in ballo il Governo Meloni, ma tutto lascia intendere che quale connessione vi sia con uno dei nuovi ministri, la titolare del Lavoro Marina Elvira Calderone. Veniamo ai fatti. Chi avesse consultato ieri il sito della Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro, fino all’altro giorno presieduta dalla Calderone, non vi avrebbe trovato – addirittura con data 25 maggio 2022 – una Nota in materia di pensioni – molto completa e interessante come sempre – nella quale – dopo un’esaustiva ricapitolazione delle norme vigenti in materia di età pensionabile, con particolare riferimento alla c.d. flessibilità in uscita e a tutte le misure di anticipo accumulate nel tempo nonché corredate delle relative regole – venivano ipotizzate – con tanto di numeri e dati – alcune delle possibili soluzioni con cui affrontare l’ultima puntata (speriamo!) della telenovela intitolata “superamento della riforma Fornero”. In realtà, la cosa migliore sarebbe quella di cessare le rappresentazioni (ovvero non fare nulla almeno fino a tutto il 2026, quando termineranno tutte le conseguenza nefaste del decreto n.4/2019). Tuttavia, Giorgia Meloni – forse già nella legge di bilancio 2023 – dovrà accontentare un suo alleato, Matteo Salvini, che di quella telenovela è produttore, regista e attore protagonista.



Deve essere, quindi, intervenuta una “manina” che ha fatto sparire quel documento, nel timore che qualche giornalista pettegolo si fosse messo in testa di associare quelle proposte al nuovo ministro, con tutte le conseguenze del caso. Indubbiamente questa volta la “manina”, ancorché incauta, ha agito a fin di bene. Le proposte non sono tutte condivisibili, ma presentano elementi ragionevolezza. Sarebbe stato un peccato darle in pasto a Maurizio Landini e farle bocciare subito. È comunque il caso di renderle palesi, sia pure senza negare l’avvenuto disconoscimento di paternità e l’abbandono del “figlio della colpa” sulla ruota degli esposti.

L’idea/forza della Fondazione Studi dei Consulenti del lavoro è semplice, come l’uovo di Colombo. Parte da una conseguenza determinata dalle quote (sia 100 che 102) nell’applicazione concreta. Per evidenti motivi il fatto che dovessero concorrere ambedue i requisiti, sia quello anagrafico (rispettivamente 62 o 64 anni), sia quello contributivo (38 anni) aveva reso molto rigido l’utilizzo delle quote, tanto che i soggetti beneficiari avevano, vigente quota 100, in prevalenza età (64 anni) oppure anzianità (41 anni) più elevate. L’esempio contenuto nella Nota è molto indicativo. “Tale rigidità impedisce, ad esempio, a un lavoratore con 61 anni di età e 39 di contributi di accedere a pensione nel caso di Quota 100 o, ancora, a un lavoratore con 62 anni e 40 anni di contributi di anticipare il pensionamento con Quota 102″.

La Fondazione propone una “flessibilità” delle quote, a partire da un minimo di 61 anni e 35 di contribuzione). Secondo le simulazioni condotte da Fondazione Studi, il passaggio di Quota 100 da formula “rigida” a “flessibile” porterebbe quasi a raddoppiare la platea dei potenziali beneficiari, con un incremento dei lavoratori interessati, stimabile attorno all’81%. La formula “flessibile” raccoglierebbe soprattutto 65-66enni che hanno maturato un’anzianità contributiva superiore ai 35 anni aiutando i lavoratori più prossimi all’età pensionistica di vecchiaia ad anticipare l’ingresso in pensione, specie considerando le difficoltà di occupabilità, e in parte 61enni con anzianità contributiva di 39 anni.

Le stesse stime sono state realizzate anche con riferimento a “Quota 102”, prevedendo la possibilità di estensione delle combinazioni età/anzianità oltre l’attuale “64 + 38”. Premesso che l’innalzamento a Quota 102 produce rispetto a Quota 100 un dimezzamento della platea dei potenziali beneficiari anche in questo caso, l’adozione di un sistema flessibile, rispetto a uno rigido, produrrebbe un incremento dell’88,7%, che interesserebbe principalmente i 66enni che hanno maturato un’anzianità contributiva inferiore ai 38 anni necessari per andare in pensione.

Considerando l’insieme delle misure e l’impatto sulla platea individuata (lavoratori di età compresa tra i 61 e 66 anni e con un’anzianità contributiva di almeno 35 anni e massimo 40) questo sarebbe molto differente: Quota 100 rigida intercetterebbe il 35,1% dei suddetti lavoratori, mentre la formula flessibile arriverebbe a coprire il 63,4%. Più basso sarebbe l’universo attivabile con Quota 102, ovvero il 15,6% nella formula rigida e il 29,5% in quella flessibile.

A livello di età, entrambe le formule flessibili vedrebbero crescere la quota di potenziali pensionati soprattutto tra le fasce di età più anziane, dove l’accesso alla pensione è precluso a chi, pur in possesso di requisiti anagrafici, non ha maturato quelli contributivi minimi.

Le considerazioni sulla flessibilità necessaria non possono d’altra parte non tenere conto – prosegue e conclude la Nota – delle necessità di contenimento della spesa, nonché di sostenibilità per vincoli normativi interni e comunitari del nostro Paese dei costi a carico dello Stato in un’ottica di corrispondenza fra contribuzione effettivamente versata e oneri correnti di spesa pensionistica. Per questo motivo, solo considerando il valore medio dei trattamenti pensionistici delle platee di lavoratori coinvolte (con dati disponibili solo all’Istituto) sarà possibile considerare formule che, almeno parzialmente, implichino meccanismi di riduzione del valore della pensione secondo due modalità possibili: una parziale conversione al metodo contributivo per coloro che possiedono quote di pensione calcolate con metodo retributivo (riferite a contribuzione versata nella stragrande maggioranza dei casi anteriormente al 1996) o, ancora, con una riduzione percentuale progressiva con il numero di annualità di anticipo rispetto all’età di vecchiaia, secondo un meccanismo parzialmente analogo rispetto a quanto previsto dalla Riforma Fornero (e oggi non più attivo, perché eliminato quasi subito addirittura con restituzione dell’importo delle penalizzazioni a coloro a cui erano state applicate) per quei soggetti indirizzati al pensionamento anticipato con meno di 62 anni di età.

La fondazione, poi, sembra essere convinta (su questo aspetto i dubbi sono leciti sulla base delle esperienza compiute) che le modalità di pensionamento influenzino direttamente anche le possibilità di turnover all’interno del mercato del lavoro. Il succedersi delle riforme ha innalzato negli ultimi anni, la quota di lavoratori over 60, con ciò influenzando, soprattutto in alcuni comparti, il ricambio generazionale. Secondo le elaborazioni della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro sui microdati Istat, Indagine Forze Lavoro, il numero dei lavoratori di età compresa tra i 61 e 66 anni, collocabili in una fascia d’età a ridosso di quella di pensionamento, ammonta a 1 milione 462 mila, e rappresenta una quota rilevante dell’attuale occupazione, pari al 6,4%. La parte più numerosa di questo gruppo si concentra tra i 61 (385 mila) e 62 anni (304 mila): sommate, queste costituiscono il 47,1% dell’intera platea. Al crescere dell’età, il numero dei lavoratori decresce, arrivando a 125 mila in corrispondenza dei 66 anni.

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